ANNI 20/30 del '900 - Monarchie vs Fascismi

Finita la Grande Guerra le monarchie dei Romanov in Russia, del Keiser in Germania e degli Asburgo in Austria-Ungheria si sono disciolte come neve al sole. Le restanti monarchie del continente europeo vedono una ascesa dei Fascismi con contrastante reazione ad essi.

L’EUROPA MONARCHICA ALLA VIGILIA DELLA GUERRA

Per quanto possa apparire singolare a un lettore del XXI secolo, fino al 1914 l’Europa più moderna è stata quella guidata da re e imperatori, sostenuti da aristocrazie dinamiche e da esponenti della ricca borghesia.

 

Londra, 20 maggio 1910. Una grande folla è presente al funerale solenne di re Edoardo VII. Quello che è stato per tanto tempo il Principe del Galles, figura emblematica dei piaceri della “belle epoque” parigina di fine dell’Ottocento, ha regnato appena nove anni, abbastanza per essere stato il propugnatore dell’Entente Cordiale, franco-inglese, del 1904.
Due milioni di persone sono sui marciapiedi della capitale inglese. Dietro al feretro del monarca, sistemato su un affusto di artiglieria, seguono a cavallo non meno di nove teste coronate, fra i quali, in prima fila, suo nipote Guglielmo II di Hohenzollern, l’imperatore di Germania.
Tutte le monarchie d’Europa che non hanno potuto o voluto venire di persona, sono rappresentate al massimo livello: lo Zar ha inviato suo fratello Michele Romanov, l’Imperatore d’Austria ha delegato il suo erede, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Absburgo, la cui morte sarà, quattro anni dopo, la scintilla della Prima guerra mondiale.
Molto indietro nel cerimoniale, quasi fosse venuto da un altro pianeta, il rappresentante degli Stati Uniti, il vecchio presidente Theodore Roosevelt. Il protocollo lo ha affiancato in vettura al Ministro degli Esteri francese, rappresentante del governo transalpino, solamente in ottava fila, subito dopo il principe cinese Tsai Tao, ma a notevole distanza dai principi e duchi che rappresentano l’Olanda, la Svezia o il Giappone dei Samurai.
Eppure ci si trova nell’ambito di una delle monarchie meno autocratiche, in una specie di festa di famiglia, uno degli eventi altamente simbolici e rituali che scandiscono, da sempre, la misteriosa unione di un popolo con colui che lo guida.

Si sarebbero potute citare ben altre cerimonie dello stesso genere, dove si sarebbero registrati, più o meno, gli stessi ruoli principali, tutti nobili, e gli stessi figuranti plebei. Ad esempio quella di Londra nel giugno 1897, in occasione del giubileo di diamante della Regina Vittoria. O, ancora a Londra, il 22 giugno 1912, in occasione dell’incoronazione di Giorgio VII di Windsor. Ma anche a Berlino nel giugno 1913 per il giubileo d’argento di Guglielmo II, a Vienna nel dicembre 1908 per il giubileo di diamante di Francesco Giuseppe, a Mosca nel maggio 1896 per l’incoronazione di Nicola II Romanov, oppure nel febbraio 1913, sempre a Mosca, nel tricentenario del regno dei Romanov. La stessa cosa anche a Roma, nel giugno 1911, con la commemorazione del cinquantenario dell’unità italiana, che consacra la solidità del trono di Vittorio Emanuele III di Savoia e la vitalità della monarchia italiana.
In tutte le cerimonie, i mantelli e le bombette dei rappresentanti delle rare democrazie hanno un aria più “meschina” che moderna, soprattutto se paragonate ai berretti da parata e alle grandi uniformi, coperte di decorazioni. Gli esponenti delle democrazie sono delle mosche bianche in questi anni che precedono il 1914. L’ostentazione colorata della nobiltà evidenzia una folgorante realtà: a parte la notevole eccezione della Francia (e, per certi aspetti, della Svizzera), più di un secolo dopo la Rivoluzione Francese l’intera Europa appare come una vasta realtà che non ha alcuna necessità di rompere con l’Ancien Regime per poter entrare con slancio nella modernità. Certo, occorre però aggiungere che fra l’autocrazia russa e la monarchia costituzionale all’inglese esistono non solo sfumature ma anche notevoli differenze.

La Russia dell’età d’argento

 

Per lunghi decenni la propaganda sovietica ha deformato la realtà della Russia prerivoluzionaria, procla­mando la sua pretesa arretra­tezza economica o sociale. Un esame onesto dei fatti e delle statistiche conferma al contrario ciò che gli analisti imparziali sapevano già: ben lungi dall’essere un paese arretrato o totalitario, la Russia, alla vigilia del 1914, è un paese in piena crescita demografica, che occupa il quinto posto nel mondo nella produzione economica e il primo nello sviluppo industriale, battendo tutti i record mondiali con una crescita media del 10% l’anno fra il 1898 e il 1913, fatto che spiega anche le forti tensioni sociali esistenti. La produzione d’acciaio risulta quintuplicata e le ferrovie conoscono uno sviluppo titanico, raggiungendo, nel 1914, i 70 mila chilometri: la spettacolare Transiberiana viene completata a partire dal 1902 e questi successi sono da ascrivere, per la gran parte, all’azione dello Stato in tutti i settori, compreso quello della banca centrale, con la fissazione della parità rispetto al lingotto d’oro (World Standard Exchange) di riferimento e l’apertura di prestiti presso i risparmiatori francesi, specialmente durante il periodo 1892-1903, durante il quale il conte Sergej Vitte, domina la vita politica russa.
Questa, d’altronde, è ben lontana dall’essere congelata. Nicola II ha per lungo tempo pensato che “la potenza non può basarsi che sul mondo contadino, tradizionalmente fedele all’autocrazia”. Ma dopo la rivoluzione del 1905 e su consiglio di Vitte e quindi di Stolypin, egli consente l’elezione della Duma, che vota le leggi e il bilancio, ma che non può tuttavia rovesciare i ministri: indubbiamente una situazione ancora lontana da un regime parlamentare, tanto più che il sovrano mantiene ancora il diritto di veto e quello di scioglimento dell’assemblea. Questo indubbio dinamismo economico, si accompagna a una straordinaria effervescenza intellettuale e artistica. Mentre l’Occidente, meravigliato, scopre in ritardo i grandi russi della seconda metà del XIX secolo come Dostoewskji, Tolstoji, Chaikovski, Rimski-Korsakov, un’altra generazione è già all’opera: quella degli Scriabin, degli Stravinsky, dei Biély, Blok, Bunin, Briussov e Andreiev, la cui modernità non ha nulla da invidiare alle culture occidentali. Non a caso si parlerà di questa stagione come di “età d’argento”

Austria-Ungheria: il paese dell’equilibrio

 

Dopo il Compromesso del 1867, l’Austria Ungheria, è diventata la duplice Monarchia, allo stesso tempo imperiale (in Austria e nelle sue dipendenze) e reale (in Ungheria). Certamente il regno di Francesco Giuseppe, uno dei più lunghi della storia, vede sospeso, come una volta quello di Luigi XIV, il naturale avvicendarsi delle generazioni, con in più, in questo caso, anche qualche tocco di romanticismo crudele: un’imperatrice assassinata, un principe ereditario morto per amore in circostanze non ben chiarite e infine un altro principe la cui morte a Sarajevo scatenerà la guerra che tutti conoscono.
Non bisogna altresì dimenticare che, all’epoca, l’insieme delle diplomazie europee vedono principalmente nell’impero asburgico il paese “dell’equilibrio” europeo per eccellenza. Anche se l’Austria-Ungheria progredisce economicamente con un tasso di crescita meno rapido che il resto dell’Europa, le industrie si sviluppano notevolmente a Vienna (la capitale il cui dinamismo nell’architettura e nelle arti è oggetto di ammirazione) e anche in Boemia, come anche il traffico sul Danubio, vera arteria unificatrice dell’Impero. Questa modernità si adatta perfettamente al potere mantenuto dalle elites tradizionali. La fine del regime feudale ha certamente indebolito la piccola nobiltà nel corso delle successioni, ma la generalizzazione dell’uso del maggiorasco (che rende indivisibile la proprietà, trasmessa con il titolo di nobiltà) ha permesso alla grande e alla media aristocrazia di conservare il controllo sui posti essenziali, sia civili (riempiendo le camere alte, ma anche entrando massicciamente nei consigli di amministrazione delle nuove società anonime), sia militari o religiosi, come nel passato.
In tal modo, contrariamente a quello che si verifica in Germania, i vescovi austriaci, non concepiscono la loro azione se non nel contesto dell’appoggio mutuo con la monarchia. Questa continua a conservare l’essenziale del potere. Se, nella parte “ungherese” dell’Impero, la Costituzione rappresenta un vero e proprio contratto fra il Re e la Nazione, è prima di tutto la nobiltà ungherese che domina il regime parlamentare. Per contro, nella parte “austriaca” dell’impero, pur esistendo ufficialmente una Costituzione, non esiste peraltro un regime parlamentare e l’Imperatore supplisce alle leggi con Ordinanze (decreti).

La fine del primato britannico

 

Altro scenario in Gran Bretagna. La seconda rivoluzione inglese, quella del 1688, ha da più di due secoli eliminato l’autocrazia con gli Stuart e proclamato il carattere costituzionale della monarchia. Ma la nuova generazione che accede agli affari e si appresta a dominare la vita politica inglese per circa vent’anni sul finire del secolo, sotto la guida dei conservatori e dei liberali unionisti, ha per capi dei membri eminenti dell’aristocrazia: Lord Salisbury, poi suo nipote Arthur Balfour o ancora Lord Randolph Churchill (il padre di Winston). Lord Randolph ha sposato una ricca americana: a suo modo è un simbolo di una aristocrazia i cui grandi possedimenti producono meno di quello che costano e che ormai, per poter mantenere i propri introiti o il proprio rango, è costretta ad acquistare delle partecipazioni industriali o bancarie. L’aristocrazia deve inoltre mostrarsi aperta e disponibile con gli uomini d’affari, a loro volta rapidamente nobilitati, che contribuiscono a fare della Camera Alta o dei Lord la fortezza dei grandi affari.
I due giubilei della Regina Vittoria sono stati le manifestazioni trionfali della potenza inglese. La lealtà popolare si sposa con il nazionalismo e trova la sua piena espressione nell’opera di Rudyard Kipling. Tuttavia, se la flotta commerciale inglese resta ancora la prima nel mondo e consente al regno, con le rendite dei capitali investiti all’estero, di importare più di quanto esporti, il paese sta perdendo il suo primato industriale. Prima ancora della fine del secolo, la Germania produce più acciaio dell’Inghilterra e costruisce una impressionante flotta da guerra, fonte di minacce e di preoccupazioni.

Il dinamismo del Reich tedesco

 

Dal 1871 il conseguimento dell’unità tedesca ha fondamentalmente cambiato lo scenario nel continente, creando uno Stato originale, molto diverso dalle vecchie autocrazie e dalle democrazie parlamentari. Il Reichstag è eletto a suffragio universale e assicura la rappresentatività nazionale, integrando la borghesia e il popolo.
L’imperatore è però ben lungi dall’essere, come il suo cugino inglese, un semplice monarca costituzionale: egli assicura l’autorità e l’unità, designa a suo piacimento il Primo Ministro, senza essere tenuto a sceglierlo nell’ambito del partito di maggioranza, comanda l’esercito, propone la pace e la guerra e ha la facoltà di sciogliere il Reichstag. Dopo la destituzione di Bismarck nel 1890, l’autorità reale si è resa peraltro sempre più manifesta: Guglielmo II regna, appoggiandosi su un sistema di partiti, abbastanza simile a quello delle democrazie, il cui Zentrum cattolico e i conservatori sono fortemente legati alla nobiltà prussiana, gli Junkers. Questi dominano non solo l’amministrazione locale prussiana (la Prussia, da sola, rappresenta più della metà della popolazione tedesca), ma anche e soprattutto l’esercito e numerose funzioni civili.
Questa nobiltà, più che per il suo conservatorismo politico, si caratterizza per le idee innovatrici in economia, in particolare nella diffusione del progresso agricolo nei grandi possedimenti, e per una apertura sociale testimoniata dai frequenti matrimoni che permettono di integrare una parte della borghesia.
La Germania dimostra un dinamismo incredibile: fra il 1871 e il 1914 la popolazione passa dai 41 al 68 milioni di abitanti. Il secondo Reich passa da una posizione di paese agricolo esportatore a quella di paese industriale esportatore, ma con una agricoltura deficitaria, nonostante i più alti rendimenti agricoli europei e la più alta meccanizzazione del continente.
Se la Germania raggiunge l’Inghilterra nelle industrie tradizionali, essa la domina largamente nel settore di quelle più recenti, come la chimica o il materiale elettrico. Complessivamente la Germania da sola fornisce il 15% della produzione mondiale. Le vie di comunicazione si moltiplicano: 60 mila chilometri di ferrovia nel 1912 (quasi quanto l’immensa Russia), organizzazione della navigazione del Reno fino a Strasburgo e costruzione di canali colossali nel nord, come quello di Kiel (1895). La marina tedesca diviene, nel corso di questi anni, la seconda del mondo.
La Germania introduce anche una legislazione sociale senza precedenti in Europa: leggi sugli incidenti sul lavoro, sulle malattie e sulla vecchiaia, votate fra il 1882 e il 1889. Un sistema di welfare introdotto con decenni di anticipo sulle democrazie occidentali e nonostante l’ostilità dei socialisti, che vi individuano un espediente di tipo paternalistico. Si tratta, in effetti, dell’epoca in cui Guglielmo II sogna un assolutismo popolare e abbandonando le leggi antisocialiste, giudicate maldestre e inefficaci, prescrive il riposo della domenica e la limitazione della durata del lavoro, creando persino i tribunali di arbitraggio delle controversie.

Il regno d’Italia tra luci e ombre

 

Il regno d’Italia, nato nel 1861, rappresenta una parte a sé stante nel panorama della monarchie europee. Nato attraverso il successivo allargamento del regno di Sardegna – che ha imposto al resto del paese le sue strutture amministrative e per effetto di un compromesso, che ha privilegiato l’unità nazionale alla forma costituzionale – è una nazione decisamente non omogenea, con una monarchia non ancora stabile (vedasi l’assassinio di Umberto I a Monza) e con una società percorsa da forte tensioni sociali, conseguenti alla rapida ma parziale industrializzazione di fine Ottocento.
La vita nazionale italiana, nella fase finale del XIX secolo, è caratterizzata da scandali ripetuti, da instabilità di governo, espressione a volte della incompatibilità della classe aristocratica con la borghesia e con gli esponenti del risorgimento.
La classe dirigente, formata dalle aristocrazie dei vari stati preunitari e dalla borghesia emergente, non costituisce un complesso autonomo e coeso, ma più spesso un tessuto lacerato da divisioni interne di carattere sociale, storico ed economico. Accanto alla aristocrazia austera e guerriera, ma anche conservatrice, del Piemonte, che domina nei primi anni la vita politica nazionale, troviamo quella lombarda e veneta, più moderna e aperta al nuovo, frutto di una simbiosi fra quella austro-ungarica, quella napoleonica ed elementi della borghesia emergente. Nel centro d’Italia, a parte l’aspetto positivo dell’aristocrazia granducale toscana – che, sostanzialmente di antica origine mercantile, appare più disponibile ai necessari cambiamenti imposti dai tempi nuovi – troviamo l’aristocrazia papalina, fortemente arretrata, legata ai privilegi e alle posizioni di rendita connesse con gli incarichi amministrativi ricoperti e alla proprietà fondiaria.
Nel Sud d’Italia l’aristocrazia, di estrazione ispanico-borbonica, rimane nel suo complesso fortemente ancorata al latifondo e ai propri privilegi, a dispetto della presenza di elites attraversate da positivi fermenti culturali.
In definitiva, nonostante alcuni gattopardeschi adattamenti di facciata, quella meridionale è un’aristocrazia non omogenea, divisa, chiusa, poco incline ad accettare dei parvenu e soprattutto, nella sua grande maggioranza, contraria alla “rivoluzione”, timorosa e conservatrice e quindi ostile alle novità.
Lo stesso discorso può essere fatto per la borghesia emergente (specie a nord di Roma), tra la quale, come al giorno d’oggi, si evidenziano scarsa omogeneità e anche tendenze politiche e sociali contraddittorie. Mentre una buona parte cerca di omologarsi all’aristocrazia dominante (matrimoni, ricerca di nobilitazione), alcune frange, per contro, per acquisire potere, cavalcano la tigre delle opposizioni e strizzano l’occhio ai movimenti sociali emergenti.
Da un punto di vista politico, le aspirazioni italiane, una volta compiuta l’unità nazionale, pongono seri problemi nella gestione della politica estera e orientano l’Italia verso scelte quasi obbligate e talvolta innaturali. Stretta fra il nemico storico, rappresentato dall’Austria-Ungheria, e la Francia – che non vede di buon occhio il suo affermarsi e dove, anzi, una significativa parte dell’opinione pubblica pensa ancora di restaurare il Papato sul trono usurpato di Roma – l’Italia si orienta per un forte avvicinamento alla Germania. Di fatto, specie per la questione tunisina, gli eventi spingono il giovane regno a entrare nella Triplice Intesa.
Dopo l’ascesa al trono del Re Vittorio Emanuele III e l’arrivo al governo di Giolitti, il paese sembra ritrovare un equilibrio politico e una relativa armonia. Nel 1911 le celebrazioni del cinquantenario del regno rappresentano l’occasione per fornire agli osservatori convenuti a Roma l’immagine di una nazione moderna, che ha fatto enormi passi sulla via del progresso. In definitiva alla vigilia della Prima guerra mondiale il regno d’Italia, anche se ancora percorso da enormi contraddizioni, può a buon diritto considerarsi un paese progredito, con un sistema di collegamenti ferroviari decisamente sviluppato e che contribuisce all’unificazione del paese, con un esercito che ha ripreso morale con la campagna di Libia e con una Marina militare moderna e di tutto rispetto.

Aristocrazie moderne

 

Alla vigilia del 1914 la Francia rappresenta un’eccezione piuttosto che la regola, sia per il suo regime repubblicano, sia per la composizione delle sue elites. Se tutta l’Europa è praticamente costituita da monarchie, queste ultime sono comunque orientate verso il progresso molto più della stessa Francia. Senza dubbio una causa importante risiede nel fatto che le aristocrazie del resto d’Europa non hanno subìto, da due secoli e oltre, come la nobiltà francese, un processo di “castrazione”, prima con il centralismo e la politica di rotazione di Luigi XIV, quindi con la progressiva eliminazione dal potere e dalla posizione di autorità morale dopo la Rivoluzione.
Né in Inghilterra, né nell’Impero Austro-Ungarico, né, soprattutto, nella Germania guglielmina, le nobiltà e le elites che le rappresentano, corrispondono minimamente all’immagine decadente fin de siècle tracciata da Marcel Proust ne Alla ricerca del tempo perduto. Al contrario, ovunque in Europa la maggioranza delle nobiltà di sangue sono attive, moderne e conservano ancora le loro due funzioni essenziali: “comandare nel campo politico ed essere di modello in quello etico morale”. Esse sembrano essere vincenti nel conseguire il difficile equilibrio fra il mantenimento delle tradizioni e la necessaria alternanza e rinnovamento delle classi dirigenziali. Questo perché le nuove classi sociali, nate dalla rivoluzione industriale, ovvero la alta e la stessa media borghesia, lungi dal ribellarsi contro la nobiltà ereditaria, come aveva fatto la borghesia francese del 1789, al contrario la ammira, la sostiene e sogna persino di imitarla e di raggiungerla attraverso matrimoni misti o la stessa nobilitazione reale.
La borghesia tedesca, nella sua stragrande maggioranza, è monarchica, come Thomas Mann, come si legge nelle Considerazioni di un impolitico, dove difende e con slancio la Germania, la sua cultura e le sue idee monarchiche: “Io non voglio il bazar del parlamentarismo e dei partiti. Io voglio la monarchia”. Nella stessa logica, l’economista Werner Sombart oppone la mentalità eroica della Germania agli ideali dei bottegai, figli della rivoluzione francese, concetto sintetizzato anche nel titolo dell’opera che questi pubblica nel 1915 Hàndler und Helden (Eroi e Commercianti).
Altri pensatori arriveranno anche più lontano, individuando in questa mentalità di piccoli gestori di reddito che ha sommerso la Francia, l’origine della sua decadenza. In questi termini si esprime anche lo svedese Rudolf Kjellén, inventore nel 1900 della parola “geopolitica”. Questi, inserendosi nella linea di pensiero di Friedrich Nietzsche, dimostra come i principi di uguaglianza, portati a valore di dogma, sfociano verso un livellamento in basso della società e alla mediocrità. Denunciando gli “slogans utilizzati dalla Rivoluzione Francese”, egli individua proprio nell’ordine tedesco il principio dell’avvenire (sic!).

Il mondo del 1914

Il conflitto mondiale, scatenato ufficialmente per vendicare un arciduca austriaco assassinato dalla mano di oscuri terroristi, infiammerà l’Europa e l’intero pianeta. Tutti avevano pensato, inizialmente, a una guerra facile e di breve durata, guerra che è invece si protrarrà per cinquantuno mesi, con un bilancio di 9-10 milioni di morti fra i soli combattenti. Questo conflitto distrugge il sistema europeo basato su alcune monarchie moderne orientate, per lo più, verso un costituzionalismo parlamentare, ma sconvolge la stabilità interna del continente, fondata sulla legittimità dinastica.
Nel momento in cui la guerra prende il via, l’Europa si trova all’apogeo della sua potenza materiale e intellettuale. Essa rappresenta il modello che tutte le altre realtà si sforzano di imitare. Ma allora, come e perché una tale catastrofe ha potuto verificarsi? Se si compara la Grande Guerra del 1914 a quella del Peloponneso, come hanno fatto alcuni storici, si conclude naturalmente che l’Europa è stata la vittima della rivalità fra le sue nazioni, proprio come la Grecia lo era stata per effetto della rivalità fra le sue città. Seguendo però Raymond Aron, rimane da chiedersi come mai la rivalità delle nazioni, che nel 1900 appariva come un aspetto favorevole per la grandezza dell’Europa, è stata successivamente un elemento deleterio e fatale.
I governi europei dell’epoca vedevano nella guerra un mezzo normale per regolare una crisi. In effetti, nessuno avrebbe voluto questa guerra, se solo l’avesse potuta immaginare nei suoi esiti. La forma assunta dalle ostilità ha finito per sorprendere tutti gli stati maggiori, dei quali nessuno aveva previsto un conflitto lungo e così devastante.
In realtà, i capi di governo e i capi militari avevano sottostimato le lezioni scaturite, sia dalla guerra russo-giapponese, sia dalla guerra di secessione americana, la prima guerra moderna in termini di materiali e la prima vera guerra a sfondo ideologico. Tutti i paesi si renderanno conto, con spavento, dell’immensa quantità e qualità di mezzi che le società moderne, democratiche e industriali, avevano reso disponibili per il conflitto. Si verrà così a scoprire, troppo tardi purtroppo, che l’antica figura del guerriero e del “cavaliere” del passato aveva ormai ceduto il passo al sinistro e esiziale spettro del materialismo trionfante.