11 SETTEMBRE 2001
Attentato alle Torri Gemelle di New York


11 settembre

Negli Stati Uniti quattro aerei di linea vengono dirottati da terroristi e portati a colpire, in una successione di attentati senza precedenti, obiettivi di forte valenza simbolica: due si abbattono a New York sulle Torri Gemelle del World Trade Center, che crollano al suolo; un terzo si schianta su un'ala del Pentagono a Washington; un quarto, che probabilmente sarebbe dovuto cadere su una sede politica della capitale (la Casa Bianca o il Campidoglio), precipita a Stony Creek, in Pennsylvania, in seguito al tentativo dei passeggeri di fermare i dirottatori. Le vittime, di cui è impossibile determinare con esattezza il numero, sono più di 6000. I principali sospettati sono i fondamentalisti musulmani e, in particolare, Osama Bin Laden, lo sceicco arabo ritenuto il capo della rete terroristica islamica.

Una data storica

L'11 settembre 2001 è una data storica. Corrisponde non solo al primo attacco al territorio statunitense da quasi due secoli, e quindi alla fine del mito dell'invulnerabilità americana, ma anche all'inizio di una rivoluzione geopolitica. Tale sconvolgimento non è stato provocato dall'azione di uno Stato o di un gruppo di Stati, come era accaduto finora nella storia moderna, ma da ignoti. L'unica certezza è che si tratti di terroristi, molto probabilmente legati alla rete di Al Qa'ida ("La base"), che fa capo a Osama Bin Laden, fautore della 'guerra santa' contro 'gli ebrei e i crociati'. È intuibile che i terroristi disponessero di collegamenti e appoggi in apparati statali di paesi islamici, non necessariamente nemici degli USA, oltre che di basi logistiche negli stessi Stati Uniti.

In quella data è cominciata quindi una 'lunga guerra' (definizione del presidente americano George W. Bush) al terrorismo internazionale, cui si è opposta, da parte di Bin Laden e dei talebani afghani che lo ospitano, la 'guerra santa' islamica. Vediamo anzitutto di esaminare gli obiettivi dei contendenti e le risorse di cui dispongono per raggiungerli.

Cominciamo con gli aggressori. Se accettiamo che appartengano al radicalismo islamico, possiamo indicare almeno tre possibili obiettivi. Primo: colpendo gli USA, volevano dare alle masse islamiche il senso che esiste un'alternativa all'egemonia globale del 'regno di Satana'; intendevano insomma enfatizzare che c'è speranza di vincere la battaglia per l'affermazione della 'Vera Fede'. Secondo: specularmente, puntavano a creare lo scompiglio nel campo nemico, che comprende non solo l'America con i suoi alleati, europei in testa, ma soprattutto i regimi filo-occidentali in Medio Oriente e in Asia Centrale. Terzo: per conseguenza, potevano pensare di favorire la caduta di alcuni di quei regimi - sopra tutti quello egiziano e quello pakistano - contro i quali si dirige il loro disprezzo e dai quali vengono spietatamente combattuti.

Quanto agli aggrediti, anzitutto gli USA hanno intenzione di impedire il ripetersi di un attacco analogo, magari di potenza più devastante come sarebbe, per es., quello compiuto attraverso l'impiego di mezzi di distruzione di massa. Se finora i terroristi non hanno inquinato gli acquedotti o piazzato un rudimentale ordigno nucleare in un garage di Manhattan è perché evidentemente non dispongono ancora delle risorse necessarie. Stroncando la rete di Bin Laden, gli americani sperano di annullare la possibilità di una simile apocalisse. In secondo luogo, gli USA sono impegnati a proteggere il loro way of life, sconvolto dagli attentati. È una 'lotta per la libertà', come annunciato da Bush. In termini pratici, si tratta di evitare che il sistema istituzionale, sociale ed economico americano venga intaccato seriamente. In qualche misura, questo è già avvenuto, data la potenza dell'attacco subito, in termini sia materiali sia simbolico-psicologici. Ma se il terrore dovesse diffondersi nella popolazione statunitense, reazioni securitarie potrebbero minare il carattere democratico e aperto della vita associata in America. Per evitare questa catastrofe, gli americani sono disposti a mettere in gioco le loro vite. Infine: Washington intende riaffermare la sua egemonia planetaria, messa in discussione dall'aggressione subita, rivedendo tutto il suo sistema di relazioni con il resto del mondo.

Una nuova era geopolitica

Lo sconvolgimento geopolitico provocato dall'attacco all'America è difficilmente misurabile, ma certamente implica una revisione totale della mappa del potere su scala planetaria. Vediamo come questa sta avvenendo, soprattutto da parte americana.

"D'ora in poi non saranno le alleanze a definire le missioni, ma le missioni a definire le alleanze", ha scritto il ministro della Difesa Donald Rumsfeld (Creative coalition-building for a new kind of war, in International Herald Tribune, 28 settembre 2001): "Questa sarà una guerra come nessun'altra. Non sarà combattuta da una grande alleanza unita per difendere un asse di potenze ostili. Al contrario, essa implicherà coalizioni fluttuanti, che possono cambiare ed evolvere". È la fine dell'illusione americana di potersi ritirare dall'impegno diretto per la gestione della propria sicurezza, grazie a quella vittoria nella guerra fredda, che oggi sembra un lontano ricordo. Nel 1992, essendo scomparsa l'Unione Sovietica, per la prima volta nella storia il centro esclusivo del potere mondiale non era più in Eurasia ma nel continente nordamericano. Allo zenit della sua potenza, ma anche della sua esposizione a culture e popoli fors'anche alleati ma non sempre simpatizzanti, Washington si accingeva a godere dei dividendi della pace. In apparenza, il trionfo assoluto dell'America. Un po' troppo assoluto. Perché gestire da soli il potere mondiale non è possibile: superpotenza non significa onnipotenza. Nasceva allora l'illusione di un moralismo geopolitico all'americana. Riecheggiavano le suggestioni universaliste del presidente Woodrow Wilson: "Questa è un'età che rifiuta gli standard dell'egoismo nazionale che un tempo governavano le nazioni. E richiede che esse lascino il campo a un nuovo ordine di cose, in cui le sole domande siano: "È legittimo?, "È giusto?", "È nell'interesse dell'umanità?"" (Remarks at Suresnes cemetery on Memorial day, May 30, 1919, in Papers of Woodrow Wilson, vol. 59, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1966, pp. 608-09).

Di qui il miraggio della pace ancorata all'egemonia della 'nazione indispensabile', per usare le parole dell'ex segretario di Stato Madeleine Albright, che ben esprimono il sentimento dominante nell'età clintoniana (e non solo): una pace ottenuta esportando la democrazia e affermando il predominio dell'America nel mondo. Incurante di affiancarsi potenze o gruppi di Stati amici, come avrebbe voluto Franklin D. Roosevelt poco prima di morire per governare il mondo del dopo-Seconda guerra mondiale, l'America si è trovata sola e sovraesposta. Un''iperpotenza' arrogante: così appariva soprattutto al mondo arabo e islamico, ripetutamente umiliato dagli USA e dal loro luogotenente in partibus infidelium, Israele.

Sicché l'America trionfante era meno egemone di quanto sembrasse. Anzi, suscitava dovunque, Europa compresa, ondate più o meno esplicite di antiamericanismo, proprio mentre l'opinione pubblica statunitense esibiva un quasi totale disinteresse per il resto del mondo. Ciò non impediva al suo governo di disperdere le forze in costose 'operazioni di pace' alle periferie del non-impero a stelle e strisce.

Contraddizione ben colta da Henry Kissinger nel suo ultimo libro: "L'eredità degli anni Novanta ha prodotto un paradosso. Da una parte gli USA sono sufficientemente potenti per insistere sul proprio punto di vista e per impegnarsi abbastanza spesso da evocare accuse di egemonia americana. Allo stesso tempo, le ricette americane per il resto del mondo spesso riflettono pressioni domestiche o la reiterazione di massime tratte dall'esperienza della guerra fredda. Il risultato è che la preminenza del paese corre il serio rischio di diventare irrilevante rispetto a molte delle correnti che attraversano e trasformano l'ordine mondiale. La scena internazionale esibisce una strana mescolanza di rispetto e di sottomissione nei confronti del potere americano, accompagnati da occasionale esasperazione per le sue ricette e confusione circa i suoi obiettivi di lungo termine" (Does America need a foreign policy?, New York-London-Toronto-Sydney-Singapore, Simon & Schuster, 2001, p. 18).

Questo e altri testi confermano che una ristretta parte dell'establishment americano, in genere la più conservatrice, era consapevole del paradosso della superpotenza non egemone, in un ambiente internazionale favorevole al terrorismo, islamico e non, minaccia su cui era concentrata da tempo l'attenzione delle agenzie di sicurezza deputate. Tanto che, con sinistra preveggenza, il documento prodotto nel 2000 dalla Commissione nazionale sul terrorismo recava in copertina le Torri Gemelle.

La prima priorità di politica estera dell'amministrazione Bush era dunque di ridurre l'overstretch, di essere e apparire più modesti, di spartire il fardello (ma non il potere) con i neghittosi alleati, europei e non. Troppo poco, troppo tardi.

Dopo l'attacco, ecco dunque la necessità e l'urgenza di correre ai ripari, ricostruendo una nuova e più efficiente rete di protezione attorno all'America. E quindi fare dipendere le alleanze utili a questo scopo dai compiti che occorre svolgere, senza formalismi o istituzionalismi controproducenti. Il concetto centrale che pare emergere è il ritorno all'idea delle 'sfere di influenza', un'idea niente affatto estranea alla storia americana, quanto meno alla storia della corrente più 'realista' della politica estera americana, che suole riferirsi a Theodore Roosevelt come suo modello presidenziale.

Questa opzione nasce dalla constatazione che l'America non può farcela da sola a regolare le cose del mondo. In fondo, l'Unione Sovietica non era solo il Nemico. Era anche un partner fondamentale, che riduceva la complessità dell'ambiente internazionale. Crollando l'URSS, qualcun altro doveva svolgere il suo compito di 'poliziotto' mondiale, come avrebbe detto Franklin D. Roosevelt. Ecco perché gli USA ricominciano a pensare il mondo, o almeno si rendono conto di doverlo fare. Sapendo di non essere onnipotenti.

 


DOCUMENTARIO DI LA7 SUGLI ACCADIMENTI DELL'11 SETTEMBRE
IL compianto giornalista Andrea Purgatori è il conduttore