IL FALSO MITO DI CERVO BIANCO - WHITE ELK

Edgar Laplante, noto come Chief White Elk e in Italia come Capo Cervo Bianco (Pawtucket, 16 marzo 1888 – Phoenix, 23 gennaio 1944), è stato un truffatore statunitense. Edgar Laplante impersona il capo indiano Cervo Bianco nel 1921.

È bello, virile e fa innamorare le donne. Le tribù irochesi non potrebbero desiderare un testimonial migliore. Il capo pellerossa Cervo Bianco è in Europa per rivendicare – davanti alla Società delle Nazioni – i diritti degli Indiani d’America.

Forte di un certo fascino esotico, l’uomo calamita l’interesse delle folle e attrae una platea di seguaci sempre crescente. Il suo tour italiano è ovunque accolto con entusiasmo. Con il suo carisma conquista un pubblico eterogeneo, composto da autorità e alti prelati, nobili e popolani, giornalisti e generali.

Sembra disporre di ricchezze illimitate. Dispensa mance a reduci di guerra, vedove e orfani, ma le donazioni più cospicue sono a favore della Federazione Provinciale Fascista. (1) A Fiume viene proclamato “fascista ad honorem”. Ad Ancona lo accoglie un drappello ufficiale che intona l’inno Giovinezza! A Bari riceve una seconda tessera fascista. (2)

Cervo Bianco e i suoi amici fascisti.

Nell’estate del 1924 Cervo Bianco vuole incontrare Benito Mussolini. Per il Duce è un’occasione da non perdere: nei giorni del delitto Matteotti, Cervo Bianco è la “distrazione di massa” perfetta. L’incontro salta all’ultimo momento, ma verrà sceneggiato lo stesso in un romanzo del 1980. Nella ricostruzione di Ernesto Ferrero, il principe pellerossa si fa annunciare come Chief White Elk Tewanna Ray. Un po’ capo politico e un po’ sciamano, Cervo Bianco mostra doti di chiaroveggenza, invitando il Duce a fare attenzione all’ulcera allo stomaco: «Io che ho pratica di medicina, riconosco questi mali. Me ne accorgo dal respiro, dagli occhi, da come tengono le mani, da come si muovono.» (3) Ma c’è anche finezza psicologica dietro la “visione endoscopica”: «È abbastanza frequente che un Capo di Stato abbia l’ulcera…» (4)

Le contesse austriache Melania e la figlia Antonia Khevenhüller di Fiumicello gli mettono a disposizione la loro villa vicino a Trieste. Amante della buona tavola e forte bevitore, trascorre il mese di agosto sulla Riviera ligure, tra Diano Marina e Varazze. A settembre è in Toscana.

Un articolo dell’epoca regala un’efficace istantanea a proposito del suo rapporto con la folla. La sera del 2 settembre 1924 l’uomo festeggia il suo compleanno all’Hotel Baglioni di Firenze; uscendo dall’albergo,

il principe ha estratto manciate di biglietti da 50 e 10 lire, che distribuì ai più vicini. Naturalmente la folla non tardò a crescere ed in breve il donatore è stato competamente [sic] attorniato. Le banconote furono esaurite ben presto ed il principe è salito in automobile, allontanandosi dopo qualche sforzo. In piazza Unità, la folla continuò a sostare a lungo in attesa del ritorno del principe, ma inutilmente. (5)

Mentre si trova a Firenze, Richard Ginori fa realizzare per lui un busto in porcellana in cui è ritratto in scala 1:1. (6)

Avvisaglie di resistenza

Il consenso, però, non è unanime. Tra gli applausi che gli tributa la città di Bologna, il 19 settembre 1924 l’onorevole Mario Bergamo (1892-1963) scrive al prefetto del capoluogo emiliano, in nome di “un ostinato residuo di dignità nazionale”. Firma da solo, ma ci tiene a dire che altri – come lui – sono scettici sui metodi del personaggio:

Un principe dei pellirosse […] si onora della scorta continua di militi fascisti, va riportando e provocando in Bologna le munifiche gesta che non aggiunsero nuova gloria alla città di Firenze. Per un ostinato residuo di dignità nazionale che è in me, e non in me solo, mi permetto di segnalare privatamente alla S.V. il nuovo fatto umiliante di cui tutti implicitamente siamo vittime. Tale fatto, ahimé, non mi meraviglia; tuttavia, a mio sentimentale avviso, il signor principe indiano, potrebbe essere messo in condizione di dover rispettare l’ospitalità degli italiani, l’ospitalità, per lo meno, degli italiani poveri. (7)


Un primo caso di “resistenza”: Mario Bergamo su La Stampa, 20.9.1924.

Il 28 ottobre 1924 Cervo Bianco pronuncia un discorso ufficiale alla cerimonia di commemorazione della Marcia su Roma. (8) Il primo e unico Indiano d’America Fascista è un orgoglio per i gerarchi.

Mentre si trova a Torino, viene ricoverato all’ospedale San Vito per problemi epatici. Un giorno sparisce dal sanatorio per riapparire in Svizzera. Cervo Bianco è a Lugano quando un telegramma avverte la polizia elvetica della sua vera identità: un truffatore in cerca di fortuna.

La vera storia di Edgar Laplante

In realtà Cervo Bianco si chiama Edgar Laplante. È un meticcio nato il 16 marzo 1888 a Pawtucket (Rhode Island). Suo padre Arthur Laplante è un muratore canadese, sua madre una nativa americana. Edgar studia canto e si mette a lavorare in vaudeville itineranti, che lo porteranno fino alla costa Ovest degli Stati Uniti. Nel 1918 sposa Bertha Thompson, una nativa americana. Come racconta Beppe Leonetti, i due

iniziano a vagabondare per la Confederazione spacciando come medicinale un intruglio a base di olio di serpente e raccogliendo fondi per la Croce Rossa, che intascano allegramente e che saranno fonte di guai giudiziari in alcune città. (9)

Nel 1923 la sua compagnia teatrale viene ingaggiata dalla Paramount Pictures per fare promozione al film di James Cruze “I pionieri”. Lo spettacolo che accompagna la proiezione si intitola “La carovana verso il West” (10) e lui interpreta la parte del pellerossa. Da tale personaggio non uscirà più. Il tour lo conduce in Europa, e a Liverpool inizia a millantare origini nobili:

Mio bisnonno, mio nonno, mio padre erano tutti dei capi tribù; io ho ereditato tale titolo e sono l’ultimo di 1600 capi. Io sono quello che ha conferito al Principe di Galles il titolo di «Grande Stella del Mattino». Fra pochi giorni andrò in Inghilterra per ottenere dalla benevolenza di Re Giorgio la protezione per i miei figli indiani. (11)

Solo una complicazione burocratica gli impedisce di incontrare il sovrano. Il 27 giugno 1923, sotto il falso nome di dottor Tewanna Ray, si sposa a Manchester con Ethel Elizabeth Holmes, una vedova inglese. Crede di essere bigamo, in realtà è vedovo: non sa che – nel frattempo – Bertha è morta di parto. Dando alla luce una figlia che lui non conoscerà mai.

Ha qualche problema con la polizia. Si diffonde la voce che sia omosessuale e lui ripara a Parigi. Quando la sua compagnia ritorna negli States, lui decide di proseguire la tournée da solo. Rimasto senza abiti di scena, rimedia acquistando un costume presso i magazzini Lafayette. Dalla Francia si trasferisce poi a Bruxelles, dove continua a esibirsi nei teatri. Interpreta canzoni della tradizione irochese e balla indossando i costumi tipici. Propone il suo one man show a Marsiglia, poi a Nizza. (12)

In un albergo della Costa Azzurra conosce Antonia Khevenhüller di Fiumicello. Sedotta dall’esotico trentenne, la ragazza ne diventa l’amante e nel giugno 1924 lo porta con sé in Italia. I soldi della nobildonna gli fanno comodo; con il sostegno economico della famiglia Khevenhüller, Edgar percorre in lungo e in largo la penisola.

Il 13 dicembre lascia l’Italia per Bellinzona. Ha una tessera turistica valida 5 giorni, ma riesce a stabilirsi a Lugano. Qui lo raggiunge un mandato di arresto internazionale spedito dagli Stati Uniti. (13) La sua carriera finisce nel manicomio cantonale di Medrisio.

In occasione del primo processo in terra svizzera, il 26 giugno 1925 La Stampa dedica al caso un titolo a tutta pagina (14) :


Davanti ai giudici di Lugano l’uomo confessa che Chief White Elk era il nome che aveva assunto lavorando in un circo nel ruolo dell’Indiano. Durante il processo mantiene sempre la stessa linea di difesa: sono un artista, tutto ciò che ho detto di me era da intendersi nel quadro di una narrativa teatrale.

Un secondo processo si svolge a Torino nell’ottobre 1926 (15) , al termine del quale viene condannato a cinque anni di reclusione. (16) Ne sconterà meno di tre: nel giugno 1929 La Stampa annuncia la sua liberazione. (17)

Il professor Mario Carrara, che ha sposato la figlia di Cesare Lombroso e che ne dirigerà il museo, è incaricato di fare una perizia psichiatrica su Edgar, che viene etichettato come un “bugiardo patologico dalla personalità istrionica”.

Il 27 agosto 1929 Edgar viene rispedito nel Stati Uniti (18) . Secondo un articolo del 6 luglio 1930, a New York l’uomo ha ripreso la carriera teatrale. (19) Muore nel 1944 a Phoenix (Arizona).

A Torino, il Museo di Antropologia criminale Cesare Lombroso ospita ancora oggi il costume acquistato ai magazzini Lafayette.

Il 15 marzo 2014 il gruppo jazz dell’Associazione Musicale degli Studenti Universitari del Piemonte, diretto da Gian Luigi Panattoni, organizza presso l’Aula Magna del Museo Lombroso un doppio concerto dedicato al finto pellerossa. La scaletta include brani che Edgar Laplante interpretava nei vaudeville, i cui spartiti sono ancora nel dossier conservato nel museo torinese (tra cui “My Mammy” e “The Sunshine Of Your Smile”). Alla serata interviene Beppe Leonetti, che ne racconta la vita e annuncia per la fine del 2015 l’uscita di un documentario su di lui.

Due fotografie dal concerto del 15 marzo 2014. A sinistra: Beppe Leonetti. A destra: il complesso diretto da Gian Luigi Panattoni, Stefano Ivaldi, Cristian Zambaia, Isabella Rizzo ed Elisabetta Panattoni.

L’Houdini dell’identità

Per Nico Orengo Edgar Laplante fu «un Houdini dell’identità in un paese che si maschera con lui.» (20) Ernesto Ferrero gli dedica il romanzo Cervo Bianco (Mondadori 1980), poi riscritto e pubblicato con il nuovo titolo L’anno dell’Indiano (Einaudi 2001). Citando le pagine di Ferrero, Oreste del Buono e Giorgio Boatti ritengono che la vicenda di White Elk racconti qualcosa del presente:

Servirebbe una spiegazione: e non tanto sulla vita sbrindellata di Cervo Bianco. Ma su questa faccenda degli italiani così facilmente magnetizzati, così desiderosi di farsi ammaliare: «Forse non era stato Laplante a inventare Cervo Bianco per gli italiani, ma gli italiani a inventare Cervo Bianco per Laplante. Gli italiani avevano proiettato su di lui il loro confuso desiderio di fasto e d’avventura. Avevano bisogno di un mago che li guarisse dalla mediocrità del loro presente. Qualcuno da applaudire per meriti che nessuno conosceva esattamente, e che consistevano principalmente in una ricchezza favolosa.»  (21)

Allude agli stessi richiami con la contemporaneità questo fotomontaggio che circola in rete:

Il volto di un illusionista contemporaneo sull’immagine di Edgar Laplante.

Oddone Camerana ne mette in luce la capacità di portare alla luce vacuità e ipocrisia della nostra società; quelli come lui

sono personaggi interessanti perché, disegnando il loro raggiro sulla base dell’idea maturata su stereotipi professionali e di comportamento, ne sfruttano i filoni più sicuri. Da buoni psicologi della vita essi mettono in scena e teatralizzano le ambiguità che ritengono di avere in comune con il prossimo. […] Piacciono a chi, scampato alle loro trame, prova soddisfazione a parteggiare al modo insolito in cui qualcuno riesce a schernire la società e i suoi sognati valori. Infatti l’impostore si rivela un amabile conoscitore delle debolezze umane. […] L’idea della vita come farsa non esclude quella dell’esistenza come tragica e pietosa recita di una parte, in forma matura e definita, per compiacere al prossimo e alla collettività. (22)

E se si pensa al finto pellerossa che, dal balcone dell’hotel Danieli di Venezia, lancia sulla folla i quattrini della contessa Khevenhüller (23) , la scena appare come la subdola (e geniale) messa in atto di un esproprio proletario.


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Per un’involontaria quanto curiosa coincidenza topografica, l’indirizzo del Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso di Torino corrisponde a via Pietro Giuria, letterato e poeta ottocentesco. Giuria. Come quella di un tribunale. E fu proprio una giuria torinese a condannare, il 12 ottobre 1926, a cinque anni, sette mesi e quindici giorni di reclusione per truffa continuata, da scontare nel carcere delle Nuove, Cervo Bianco (White Elk), capo di una tribù di nativi americani. Lungo la galleria del Museo, dietro i vetri di una grande bacheca, i visitatori guardano oggi un po’ disorientati il costume di Cervo Bianco: diadema di piume maestoso, tunica bianca ricamata e ornata di frange. Il sotto tunica color arancione, polsini lucenti di bardature dorate, porta sul colletto l’etichetta delle gloriose Galleries Lafayette di Parigi. E allora gli interrogativi si infittiscono. Perché il capo indiano indossava un indumento firmato dai negozi della moda parigina? Gli interrogativi crescerebbero ulteriormente, se il visitatore potesse accedere agli archivi museali. Dentro corposi faldoni sono conservate migliaia di richieste di aiuto economico, tutte indirizzate a Cervo Bianco. Le pance di altri faldoni svelano centinaia e centinaia di pagine divise in colonne, con il nome del questuante (associazione, ente, circolo, parrocchia, semplice ma bisognoso privato…), il suo indirizzo, la cifra stanziata o in corso di stanziamento. Così, parafrasando la manzoniana domanda, viene da chiedersi «White Elk, chi era costui?» E ancora: che ci faceva in Italia, come e per quale ragione ci arrivò, perché finì in una galera sabauda? La sua storia, il capo indiano la raccontò in carcere all’intellettuale antifascista Massimo Mila. Mila la riferì anni dopo a Ernesto Ferrero, attuale presidente del Salone Internazionale del Libro, che ne fece un libro, L’anno dell’indiano, pubblicato da Einaudi. Ma rimase pur sempre una storia sommersa, esaurita dalle cronache dei giornali del tempo. Quel tempo era il giugno del 1924. Il viaggio a ritroso per far riemergere i fatti e ricostruire una personalità che gli epigoni di Lombroso definirono «istrionica, di un mattoide, di un bugiardo patologico», lo sta compiendo, con un documentario in corso d’opera, White Elk. Il pellerossa in camicia nera, un filmaker intorno ai trent’anni, Beppe Leonetti. Alle spalle molte esperienze professionali come montatore, maturate accanto a Nanni Moretti, Alfonso Arau, Guido Lombardi (autore del bellissimo La bas. Educazione criminale), Beppe, durante un viaggio in treno, ha scoperto White Elk leggendo Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu. Lo scrittore descriveva in mezza pagina la Cagliari di allora, trepidante per l’arrivo di Cervo Bianco. Dal clima di esaltazione generale avevano tratto vantaggio economico i proprietari delle case con le finestre affacciate sul luogo dell’evento, affittate a caro prezzo.

Torniamo al giugno del 1924, seguendo il racconto di Leonetti. L’Italia, strozzata dalle difficoltà economiche, inasprita dal malcontento diffuso verso un fascismo che si avviava a divenire apertamente dittatura, spaventata dalle violenze squadriste e dagli arresti degli oppositori, messa a tacere dalle limitazioni alla libertà di stampa, sta per elencare un altro martire nella lista dei caduti per la libertà. Giacomo Matteotti, rapito il 10 dello stesso mese, verrà ritrovato morto soltanto il 16 agosto, ucciso dai sicari di regime. Ed è a giugno che nel porto di Trieste sbarca Edgar A. Laplante, nato a Rhode Island, Canada, classe 1888. Si dichiara Principe Pellerossa, con il nome di White Elk, in altri casi sarà Tewanna Ray, capo di una tribù di trentamila nativi. È reduce da una tournée europea per promuovere il kolossal americano Covered Wagon, ha trentasei anni, è indubbiamente di bell’aspetto, di professione fa il cantante e ballerino, dichiara illustri trascorsi cinematografici con Rodolfo Valentino in Lo sceicco e I quattro cavalieri dell’Apocalisse. A Nizza ha conosciuto, qualche mese prima, la contessa Amalia e la contessina Antonia Kevenhuller, Da loro, l’invito a trascorrere qualche tempo nella residenza italiana di famiglia. A suo dire, Edgar/White/Tewanna è animato da nobili propositi: il tour costituisce occasione per propugnare la causa pellerossa, per metterla davanti agli occhi e alla coscienza del Vecchio Continente. Da improvvisa folgorazione colpito, Edgar/White/ Tewanna sente l’anelito di libertà che batte nel cuore delle camicie nere, forte come quello del suo popolo. Alle camicie, dunque, si può chiedere di fare causa comune, di schierarsi accanto alle genti oppresse delle praterie del West. A patto di organizzare un viaggio «promozionale» attraverso l’Italia. Uno sforzo che le contesse accettano di finanziare. Il Principe pellerossa si fa garante della restituzione del debito. I beni della sua tribù, oro, petrolio, diamanti, afferma, sono sotto sequestro delle autorità degli Stati Uniti. Dalla Corte d’Inghilterra, lascia intendere, è in corso una trattativa affinché tali beni rientrino in possesso dei legittimi proprietari.

A questo punto, la vicenda impone di chiarire origini e vicende pregresse di Edgar/White/Tewanna. Leonetti risponde da documentato e meticoloso cicerone: «Era figlio di una nativa americana, che muore nel 1904, e di un muratore bianco canadese. Studia canto, e giovanissimo abbandona la casa dei genitori per andare al seguito di una compagnia di teatranti, con cui gira per gli Stati Uniti, arrivando a Los Angeles. Qui, se ne farà vanto più volte, sostiene di aver recitato in Before the Whiteman Came, la prima pellicola che vede la partecipazione massiccia di autentici pellerossa. Ma le scene che li ritraggono sono soltanto scene di massa. Sostiene di aver ricoperto il ruolo di uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Ma il primo e il secondo hanno il volto scoperto, gli altri due sono mascherati. La carriera di Edgar si interrompe con lo scoppio del primo conflitto mondiale. La nave da guerra Antille su cui è arruolato viene affondata al largo delle coste della Francia, il soldato Laplante riporta alcune ferite al torace e torna in patria. Poco dopo conosce Berta Thompson, Cascata della montagna nella lingua della tribù Yurok cui appartiene, figlia di Lucy, autrice del libro To the American Indian: Reminiscences of a Yurok Woman (1916). Siamo tra il 1918 e il 1921. I due si sposano, e iniziano a vagabondare per la Confederazione spacciando come medicinale un intruglio a base di olio di serpente e raccogliendo fondi per la Croce Rossa, che intascano allegramente e che saranno fonte di guai giudiziari in alcune città».

La California è il luogo della separazione. Berta si ferma lì, Edgar va a nord, in Canada, Toronto e Halifax, dove indossa per la prima volta i panni di Capo Cervo Bianco, cantante e ballerino. Così lo annunciano i manifesti dei suoi spettacoli, rivolti soprattutto ai bambini. Le ambizioni del Capo puntano, però, assai più lontano, in direzione dell’Europa. Nel 1922 approda da Halifax a Liverpool, dove mette in scena il suo repertorio. L’incontro a Manchester con Ethel Watson, già madre di un bambino, porta a un secondo matrimonio, bigamia troppo difficile da scoprire viste le distanze.

Trascorre poco tempo, ed Edgar si aggrega a una compagnia che proietta in Francia, Germania, Olanda, Belgio, su incarico della Paramount, Before the Whiteman Came. Presentandosi come nativo americano, prima e dopo le proiezioni si esibisce in canti e balli tradizionali. A Nizza, è il gennaio del 1924, incontra, lo abbiamo detto qualche riga più su, le due nobildonne austriache. L’invito a Trieste, prima ospite dell’Hotel Savoia, uno dei tanti e lussuosi alberghi in cui alloggerà, poi l’accoglienza nella magione delle contesse, dove incontrerà anche il rampollo Giorgio, consentono a Edgar/White/Tewanna di completare l’opera. Spalle coperte finanziariamente, salpa a bordo del piroscafo Cimarosa, prima tappa Venezia. Ad attenderlo c’è una vera e propria folla, incuriosita dalle cronache dei giornali che ne esaltano la figura di difensore dei fratelli perseguitati Oltreoceano. Dal balcone della sua stanza all’Hotel Danieli, Cervo Bianco si affaccia e getta manciate di banconote sulla gente che lo acclama. Il copione verrà ripetuto puntualmente ad Ancona, Bari, Brindisi, Catania, Napoli, Roma, Genova, Diano Marina, seguito da visita alla Casa del Fascio, incontro con i gerarchi locali, rilascio di una tessera onoraria del partito, affaccio per l’ovazione pubblica con saluto romano. A Diano Marina, White Elk incontra il conte piemontese Barattieri, che si prodiga per fargli avere un incontro ufficiale con Mussolini. Palazzo Chigi risponde che si può fare, nel mese di agosto. Ma l’incontro salta. Il duce è accorso in Toscana per fronteggiare gli scioperi dei minatori. Neanche con papa Pio XI va meglio. Il pontefice si limita a far recapitare al Capo due foto autografe.

Appuntamenti mancati a parte, la celebrità del Principe pellerossa è ormai al culmine. A Firenze viene trasferito di nascosto dall’Hotel Baglioni a un altro albergo, per via di un’adunata popolare che la polizia fatica a contenere. E sempre a Firenze, in un ristorante, la sua fama di mecenate porta una tavolata di una trentina di persone a chiedergli di pagare il conto. Il Principe soddisfa la richiesta senza fare una piega. Durante una visita alla fabbrica fiorentina di ceramiche Richard Ginori, le maestranze gli regalano un busto che riproduce le sue fattezze. Il generale d’aviazione Ceccherini gli racconta dell’impresa dannunziana di Fiume. White Elk torna a Trieste, dove affitta un idrovolante e ripete il volo di D’Annunzio. Nel dicembre del 1924 arriva a Torino. E qui inizia la sua parabola discendente, quasi una soap opera nella cronaca di Leonetti: «Cervo Bianco sta male, ha contratto la sifilide, ed è reduce da un litigio furibondo con Giorgio, il rampollo della casata Kevenhuller. Giorgio, appena tornato dal suo abituale safari in Africa, ha scoperto che il patrimonio familiare è stato azzerato dai prestiti al presunto nativo americano. In sei mesi è svanito un milione di lire». Tanto per avere un termine di paragone: negli anni Venti, un docente universitario percepiva uno stipendio mensile di 300 lire, «Giorgio caccia di casa il protetto di Amalia e Antonia, che a Torino soggiorna una settimana presso l’Hotel Turin Palace, per poi venir ricoverato in ospedale. Lì un funzionario del ministero degli Interni gli consegna un foglio di via. Il posto più vicino dove andare è la Svizzera, ma la malattia lo costringe di nuovo in un letto dell’ospedale di Bellinzona. Al capezzale si presenta Antonia. Ha scoperto tutto. Il millantato recupero del patrimonio tribale tramite il Principe di Galles è una bufala. La corte inglese nulla sa di White Elk. Parte la denuncia e arriva la condanna del tribunale svizzero: un anno di galera, diagnosi psichiatrica di personalità mattoide» Scontata la pena, Edgar, poiché tale e soltanto tale ormai è, viene estradato in Italia. A Torino l’aspetta un secondo processo, in seguito a un’ulteriore denuncia della contessina. La pena è pesante. Massimo Mila, suo compagno di cella, divide il poco spazio con un uomo che non ha neppure i soldi per comprarsi il tabacco; su iniziativa del direttore delle Nuove, i carcerati fanno una colletta e acquistano un maglione di lana che aiuti l’ex Capo a proteggersi dal freddo; Mila ne ascolta i racconti, forse incredulo, certamente colpito da una figura fuori da ogni schema. Edgar, al termine della reclusione, torna negli States. Si arrabatta con altri piccoli inganni fino alla morte, per infarto, nel 1944, in una clinica di Phoenix, Arizona, la città che ancora oggi accoglie la sua tomba. Qualche anno prima aveva mandato un telegramma al figlio della seconda moglie, che amava profondamente: «Caro Leslie, tuo padre deve andarsene e non tornerà mai più». Berta è sepolta a Eureka, California; Ethel a Manchester, la lapide porta il cognome finto del marito, Tewanna. Beppe Leonetti, una considerazione finale su questo artista della truffa, anomalo Robin Hood che rubava ai ricchi e regalava ai poveri senza tenere nulla per se stesso; su come sia stato possibile che l’Italia del Duce, così tronfia di certezze, abbia bevuto a lunghi sorsi le teorie strampalate di White Elk: «La storia italiana di Cervo Bianco incarna alla perfezione una frase del filosofo Theodor Adorno ‘E poi il culto delle feste in costume sboccò nel fascismo’. I gerarchi erano privi di cultura, vanagloriosi e vanitosi, si riempivano la bocca di parole vuote. Non a caso, Edgar Laplante, negli altri stati europei, si presentava come cantante, attore e ballerino. Ciò che millantava non oltrepassò mai certi limiti, perché lui sapeva che sarebbe stato considerato un ciarlatano». Cervo Bianco, tuttavia e alla fine, almeno uno scalpo lo ha avuto. Quello del cranio ottuso di un regime che, nonostante la pena inflitta al falso Principe, uscì scuoiato dalla lama del ridicolo.