Primo Levi - Se questo è un uomo -

Primo Levi è stato uno scrittore, chimico, partigiano e superstite dell'Olocausto italiano, autore di saggi, romanzi, racconti, memorie e poesie. 
Nascita: 31 luglio 1919, Torino
Morte: 11 aprile 1987, Torino
Coniuge: Lucia Morpurgo (s. 1947–1987)

Il 22 febbraio 1944 Levi e altri 650 ebrei, donne e uomini, furono stipati su un treno merci (oltre 50 persone in ogni vagone) e destinati al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia; il viaggio durò cinque giorni.

Ma chi è stato Primo Levi?                                                                               Risultati immagini per primo levi









Primo Levi è stato uno scrittore italiano di origine ebraica. Nato nel 1919 e morto nel 1987, è passato alla storia per le sue opere che raccontano il dramma dell'Olocausto e delle deportazioni naziste nei campi di concentramento.
Perché è famoso Primo Levi?









Primo Levi fu uno degli scrittori italiani più importanti del secolo scorso. Studiato nelle scuole e ritenuto universalmente una pietra miliare della letteratura italiana, è soprattutto una figura fondamentale per capire il dramma e le conseguenze dell'Olocausto, o Shoah, di cui è stato testimone diretto.

Auschwitz

Il racconto dello sterminio nazista assume in Primo Levi tratti di inconfondibile originalità. Nello stesso tempo rappresenta un banco di prova essenziale per le sue qualità di scrittore, di pensatore e di uomo.


Deportazione e Lager

174517 fu il numero tatuato sull’avambraccio sinistro di Primo Levi nel febbraio del 1944, al suo ingresso nel campo di sterminio nazista di Auschwitz. La detenzione durò poi per undici mesi fino alla liberazione, avvenuta il 27 gennaio dell’anno successivo a opera dell’esercito russo.

Di quell’esperienza e della realtà del Lager lo scrittore torinese ha testimoniato subito dopo la guerra nel suo primo libro Se questo è un uomo.

. Ma di essa ha anche fatto il centro dei propri pensieri e del proprio impegno di testimone diretto, in particolare nel rapporto con i giovani, per tutto il corso della sua vita; fino alla pubblicazione de I sommersi e i salvati, sintesi di uno studio e di una riflessione quarantennali.

Il racconto della Shoah assume in Levi tratti di inconfondibile originalità. Nello stesso tempo rappresenta un banco di prova essenziale per le sue qualità di scrittore, di pensatore e di uomo.

L'11 aprile 1987 Primo Levi si uccise gettandosi dalla tromba delle scale della sua abitazione di Torino. Riguardo ai motivi che lo spinsero a compiere questo gesto, si possono fare soltanto delle ipotesi; come Levi stesso scrisse a proposito di Jean Amery (anch’egli un deportato morto suicida), "nessuno sa le ragioni di un suicidio, neppure chi si è suicidato". Probabilmente egli provava un senso di vergogna per essere sopravvissuto allo sterminio nazista, e la mancanza di risposte alla domanda "Perchè io?" (che farà da colonna portante a I sommersi e i salvati, forse il suo libro più importante) lo condusse ad una forte depressione

Lo scrittore sentiva, inoltre, di aver ricevuto un "dono avvelenato", ovvero quello di dover raccontare ciò che aveva vissuto, costringendolo a rivivere continuamente la sua sofferenza. Infine, un recente intervento alla prostata lo aveva costretto ad interrompere i farmaci antidepressivi.


Primo Levi, "I sommersi e i salvati": riassunto e spiegazione dell'opera

Introduzione

 I sommersi e i salvati è un saggio di Primo Levi che analizza la tragedia dei Lager nazisti, il ruolo delle vittime e degli aguzzini all’interno dei campi, l’importanza della testimonianza e il rischio che la memoria della persecuzione nazista venga dispersa o, peggio ancora, travisata e negata. Quello di Levi è dunque, come già in Se questo è un uomo 1 e ne La tregua, un rinnovato appello alla memoria dei lettori riguardo alla Shoah: non dimenticare, affinché la Storia non debba ripetersi.

L’opera pubblicata nel 1986, un anno prima del suicidio dello scrittore, è divisa in otto capitoli, preceduti da una Prefazione e seguiti da una Conclusione.

 Riassunto

 I sommersi e i salvati si aprono con una citazione da The Rime of the Ancient Mariner di Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), che servono a fotografare l’atteggiamento con cui Levi prova, lucidamente e razionalmente, a rievocare il doloroso ricordo, personale e collettivo, dei campi di sterminio di Auschwitz:

Since then, at an uncertain hour,
that agony returns:
and till my ghastly tale is told
this heart within me burns 

Da allora, in un'ora incerta,
ritorna quell'agonia: 
e finché non viene raccontata la mia orribile storia, 
questo cuore dentro di me brucia

Il ricordo, quasi una “agonia”, è quello di un “racconto agghiacciante”; tanto più se, come Levi chiarisce nella Prefazione, sono sempre più le voci che si alzano per negare o smentire i racconti dei reduci, quasi replicando il disegno nazista che, sul finire della Seconda guerra mondiale, iniziò la sistematica distruzione di tutto il materiale che poteva provare l’esistenza dei campi e il disegno della “soluzione finale” alla question ebraica. Per Levi, il rischio dell’oblio è particolarmente forte in relazione alle nuove generazioni.

Così il primo capitolo (La memoria dell’offesa) indaga lo strumento della memoria, che per Levi è “meraviglioso ma fallace”, perché viene implicitamente condizionata da ciò che avviene in seguito: gli aguzzini del campo possono così tentare di giustificare i loro comportamenti come frutto di un disegno più grande, di cui loro erano semplici ingranaggi incolpevoli. Una distorsione speculare della memoria è anche quella delle vittime del Nazismo: spesso, per nascondere un dolore troppo grande, i sopravvissuti al Lager (i “salvati”) si sono costruiti una sorta di memoria fittizia. Nel secondo capitolo (La zona grigia) Levi allora approfondisce la natura del disegno di sterminio hitleriano, soprattutto negli ultimi drammatici mesi di guerra: l’obiettivo è quello della distruzione non solo fisica ma anche psicologica degli internati. Da qui la serie di violenze insensate e di umiliazioni disumane di cui sono vittime i prigionieri ebrei. La peggiore di tutte per Levi è quella che confina l’essere umano in una condizione di complicità con i suoi stessi carnefici: è il caso dei Sonderkommandos (i gruppi di prigionieri ebrei che si devono occupare della gestione delle camere a gas) e, più in generale, di tutti quei prigionieri privilegiati che, proprio grazie al rapporto con le autorità naziste, hanno avuto salva la vita. La vergogna (capitolo terzo) tratta allora il problema morale della “minoranza anomala” che si è salvata dai campi di sterminio: Levi descrive il tormento morale e il senso di colpa dei “salvati” che, poiché “mancava il tempo, lo spazio, la pazienza, la forza”, non hanno saputo o potuto aiutare tutti gli altri prigionieri. La pena di questi “salvati” non sarà però minore nel resto della loro esistenza, tanto che in molti sceglieranno la via del suicidio.

Il capitolo quarto (Comunicare) affronta una questione solo apparentemente secondaria: quella della lingua. La gran parte dei prigionieri del campo vive infatti nella condizione assurda di non comprendere gli ordini delle guardie, non conoscendo il tedesco. Questa condizione umilia ulteriormente i prigionieri, privandoli della facoltà di relazionarsi con il mondo, venendo privati del loro stesso pensiero. levi analizza poi la particolare lingua del campo di concentramento, che è una sorta di degenerato dialetto tedesco. Nel quinto capitolo (Violenza inutile) lo scrittore affronta il fondamentale tema della violenza nei confronti dei detenuti: essa appare agli occhi di Levi tanto inutile quanto umiliante, e finalizzata solo alla completa distruzione psicofisica dell’internato attraverso le leggi del campo (il taglio dei capelli, la sottrazione degli oggetti personali, l’obbligo delle marce e il rispetto meticoloso degli orari). A ciò s’aggiunge la pratica degli esperimenti medici sui detenuti, che rappresentano l’esempio più estremo di alienazione e disumanizzazione. L’intellettuale ad Auschwitz (capitolo sesto), prendendo spunto dalla figura di Jean Amery (pseudonimo di Hans Mayer), affronta invece la questione della dura vita di un intellettuale all’interno di un campo di concentramento, dove egli vede miseramente crollare tutti i valori in cui aveva sempre creduto.

Gli ultimi due capitoli (Stereotipi e Lettere di tedeschi) affrontano rispettivamente alcuni falsi miti sul mondo di Auschwitz (come la possibilità di fuga dal campo) e la questione della valutazione a posteriori di quello che è successo in Germania durante gli anni del Nazismo. Per Levi il rischio è sempre quello che la distanza temporale che si frappone tra noi e gli eventi descritti nei suoi libri offuschi la percezione di ciò che è successo e quindi ci porti a dimenticare con troppa leggerezza. Completa il quadro la corrispondenza dell’autore con alcuni cittadini tedeschi dopo la pubblicazione in tedesco di Se questo è un uomo (1961).

 Commento

 Nelle pagine de I sommersi e i salvati Levi decide difarci udire la voce anche di chi non è sopravvissuto al nazismo, quella dei "sommersi". Questi ultimi sono coloro che non hanno trovato un modo per restare in vita perché hanno seguito passo per passo le regole della vita del campo; a loro si contrappongono i (pochi) "salvati" che, pur ad un prezzo altissimo, sono tornati vivi alla loro esistenza normale e quotidiana. Levi, annoverandosi tra questi, spiega al lettore comela maggior parte dei "salvati" siano riusciti a vivere perché hanno accettato di abbandonare parte della propria moralità e integrità, riuscendo a divenire "utili" al funzionamento del campo. Da ciò capiamo l’angoscia provata da Levi al momento della liberazione da parte degli alleati, che non viene vissuto con totale gioia, perché porta con sé la vergogna per essere sopravvissuti, e insieme l’onere delle testimonianza di ciò che i sopravvissuti hanno visto.

La forza di questo libro è il coraggio di raccontare l’animo umano in una situazione inedita nella Storia come quella del campo di sterminio. Levi non descrive la spinta alla solidarietà e all’aiuto reciproco da parte degli internati, ma piuttosto presenta la vita del campo secondo la massima mors tua vita mea - "la tua morte è la mia vita", e cioè il cinico principio per cui alla morte di un compagno corrisponde una speranza di salvezza in più per se stessi: la quotidianità dell'incubo, l'assurdità delle leggi del campo in una situazione esistenziale in cui nulla pare avere più norma o valore, la perversità di un microcosmo che pare non avere orizzonti di uscita.

Levi ci spiega quali limiti disumani possa raggiungere una condizione come quella dei prigionieri di un lager, non riferendosi tanto alla ferocia nazista, bensì descrivendo lo stato di degradazione morale e fisica in cui versano i prigionieri: una disumanizzazione tale da togliere significato anche alla morte.


"Se questo è un uomo" di Primo Levi: riassunto e commento

Scritto dopo il suo ritorno dal lager nel 1945, il romanzo narra l'esperienza di Levi nel campo di lavoro di Monowitz, dove egli si era salvato svolgendo il mestiere di chimico presso la vicina fabbrica di Buna. L'opera non è un testo letterario in senso stretto: essa rappresenta, al contempo, un documento testimoniale, antropologico, etnografico ed una sorta di analisi delle condizioni dell'"animale uomo" nel campo; come l'autore stesso spiega nel capitolo IX, I sommersi e i salvati, quello attuato dai nazisti fu un esperimento biologico-sociale. La struttura narrativa non si sviluppa in modo cronologico, ma come una sequenza di vicende, suddivise per argomento (l'ambulatorio del campo, le selezioni, i vari momenti della giornata) ed è costruita per brevi capitoli, ognuno dei quali accoglie storie e considerazioni. L'attuale versione dell'opera differisce da quella originaria (pubblicata nel 1947 dall'editore torinese De Silva) per l'aggiunta di una trentina di pagine, a causa di un primo rifiuto da parte dell'Einaudi. Elemento caratterizzante del libro è la lingua, innervata dello stile di Dante e Manzoni, che rende Levi un classico della letteratura italiana; significativa, a questo proposito, è la scelta di aprire il romanzo con la parola "fortuna", uno dei fondamenti della tradizione letteraria del nostro Paese.


Capitolo II, Sul fondo

All’arrivo i prigionieri vengono lavati e rasati, ricevono le divise e sono tatuati con un numero di riconoscimento sul braccio (Levi è così il prigioniero 174517). Vengono radunati e contati nella Piazza d’Appello, di cui viene data una descrizione. 

L’autore fin da subito capisce che l’unico modo per sopravvivere è seguire le regole del campo e evitare questioni: il tutto rimane scolpito nella memoria per l’agghiacciante scritta che accoglie i deportati, Arbeit macht frei (in tedesco: “Il lavoro rende liberi”). 

Il capitolo descrive pure la struttura e la disposizione dei diversi edifici del campo, così come la gerarchia che regola la vita dei prigionieri.


Capitolo III, Iniziazione

Il capitolo si concentra su due problemi fondamentali: il cibo e la lingua. Come è difficile procurarsi da mangiare - e pertanto il pane è un fondamentale oggetto di scambio - ugualmente è difficile comprendersi nella babele di linguaggi che affollano il campo, tanto che Monowitz appare agli occhi del protagonista una riedizione moderna e perversa della biblica Torre di Babele

Levi passa poi a descrivere l’igiene del campo, del tutto assente, e l’incontro avuto al lavatoio con un conoscente, che gli ricorda che smettere di lavarsi equivale a cominciare a morire.


Capitolo VII, Una buona giornata

Il capitolo si concentra su un momento di rottura della routine infernale del campo: in un giorno sereno, la razione di cibo per ogni prigioniero è il doppio del solito. 

Tuttavia l’angoscia della morte non abbandona gli internati, che all’orizzonte vedono il fumo delle ciminiere di Birkenau che bruciano i cadaveri dei morti (per lo più, donne, anziani e bambini).