CASA E' STATA ED E' ANCOR OGGI LA PIAGA DELLA MALARIA

LA PIAGA DELLA TUBERCOLOSI PER L'UMANITA'

LA DURA LOTTA ALLE MALATTIE ENDEMICHE CHE HANNO AFFLITTO L’UMANITA’ PER MILLENNI. SIAMO A CAVALLO TRA L’OTTOCENTO ED IL NOVECENTO, E L’UMANITA’ FA UN MIRACOLOSO PASSO AVANTI NELLA MEDICINA.

Nel novecento, grazie alla rivoluzione industriale, la medicina e l’igiene hanno subito straordinarie trasformazioni. Anche nei secoli precedenti le invenzioni e le scoperte mediche non mancarono, ma non accadde nulla di paragonabile alle grandiose novità dell’èra industriale.

Per convincersene, basti pensare a quel che accadeva in Europa non già nei tempi più antichi, ma nel diciannovesimo secolo. Nella prima metà dell’Ottocento, mentre il colera imperversava a Parigi, i medici prescrivevano bagni caldi, sanguisughe, salassi, impiastri e frizioni, ma non vietavano ai parigini di bere l’acqua della Senna e della Bièvre inquinata dalle fogne. Fransuà Raspail, nel 1839, suggeriva di combattere il colera usando l’aceto canforato, accendendo fuochi attorno agli stagni e collocando lampioncini sui tetti delle case per tener lontani i «miasmi putridi». E, nell’ignoranza delle vere cause del male, le angosce collettive continuavano a sfogarsi nei massacri degli «untori» così che, a Parigi come altrove, tanti innocenti furono accusati di spargere le epidemie e uccisi nel corso di violente sommosse.

Nel 1894 il colera faceva strage nella città di Napoli e ancora lo si combatteva con misure ridicole e vane. Axèl Mùnte, medico e scrittore svedese, si trovava in quel tempo a Napoli e non trovava di meglio che affidarsi ad un «ricostituente» messo in vendita dalla farmacia di San Gennaro. Mùnte scrisse che le strade di Napoli erano percorse da carrette cariche di morti e di moribondi, con le bocche e con gli occhi spalancati, abbandonati da tutti, pronti a essere gettati nelle fosse comuni:

«Quanti ve ne furono gettati vivi? Sembravano tutti assolutamente uguali. Non c’era tempo da perdere, ce n’erano a dozzine in ogni vicoletto; gli ordini erano sevèri, dovevano essere tutti sepolti durante la notte».

In epoca preindustriale la vita era breve. Malattie che oggi possono essere curate erano incurabili per tutti, per le grandi masse come per le élite. Basti pensare ai grandi musicisti ottocenteschi. Schubert morì trentunenne, nel 1828, sifilitico. Bellini mori trentaquattrenne, nel 1835, per una dissenteria cronica di probabile orìgine amebica. Donizetti mori cinquantunenne, nel 1848, di sifilide. Chopin morì trentottenne, nel 1849, di tisi. Ciaikovski morì a cinquantré anni, nel 1893, di colera. Ancora agli inizi del nostro secolo, nel 1935, Albàn Bèrg morì a causa di un’infezione generata da un ascesso mal curato: i sulfamidici avevano cominciato ad essere sperimentati soltanto due anni prima.

Nell’Europa dell’Ottocento, molti ospedali si presentavano come ricoveri tetri, rozzi, primitivi. Non in un paese sottosviluppato, ma nella grande e progredita Francia, varie istituzioni ospedaliere, per esempio quella di Nànt, erano prive di letti individuali. Nel 1810, l’ospedale di Lorient, in Bretagna, arrivava ad ospitare 120 malati in 28 letti. E nelle corsie di questi ospedali gli ammalati di malattie infettive non erano tenuti separati dagli altri.

Molto spesso, nella prima metà dell’Ottocento, le operazioni chirurgiche erano compiute da

«empirici» e da barbieri, che non avevano mai studiato l’anatomia. Ma anche i chirurghi che avevano compiuto regolari studi eseguivano le operazioni senza anestesia, senza possibilità di trasfusioni, senza preventive radiografie o analisi, senza rispettare l’igiene. Il paziente era legato a



un tavolo di legno con cinghie di tela e l’abilità del chirurgo consisteva anche nell’essere molto rapido per limitare i contorcimenti di chi urlava sotto ai ferri. Gli assistenti cercavano di tenere pulito il corpo dell’operato utilizzando spugne imbevute di acqua ghiacciata. E le operazioni si svolgevano nelle sale comuni degli ospedali, nelle aule universitarie, in luoghi di fortuna, al cospetto di tutti. Vere e proprie camere operatorie cominciarono ad aversi in Italia soltanto verso la fine dell’Ottocento.

Qualcuno, che sperimentò personalmente un’operazione senza anestesia, inviò nel 1848 una lettera di gratitudine al dottor James Simpson, scopritòre del cloroformio. Prima della scoperta degli anestetici, egli scrisse, il paziente che si preparava a un’operazione era paragonabile a un criminale in procinto di essere giustiziato. Contava i giorni fino a quello designato, contava le ore di quel giorno fino al momento decisivo. Ascoltava con angoscia, giù nella strada, il rumore della carrozza del chirurgo; aspettava la scampanellata, il suono dei passi sulle scale e quindi, nella camera, l’esposizione dei temuti strumenti, le poche gravi parole, gli ultimi preparativi. Rinunciava quindi alla propria libertà e, pur inorridendo, permetteva che lo si tenesse stretto oppure legato, per sottoporsi indifeso al crudele coltello.

Secondo Douglas Gùtri, i chirurghi del secolo scorso operavano indossando vecchie giacche insanguinate e tenendo all’occhiello, pronti per l’uso, i fili di seta necessari per le legature. Non portavano i guanti sterili, che avrebbero cominciato a diffondersi soltanto dal 1898, e spesso non si lavavano neppure le mani, provocando nei pazienti le più gravi e mortali infezioni. Era abbastanza frequente, fra l’altro, che le donne recatesi a partorire in un ospedale, contraessero la

«febbre puerperale» e ne morissero. Nel 1847 l’ungherese Sèmmelvais, aiuto alla maternità di Vienna, ordinò che gli studenti provenienti dalla sala operatoria si lavassero le mani in una soluzione di cloruro di calcio prima di entrare nel suo reparto. La mortalità delle pazienti ospitate nel reparto calò immediatamente, ma Sèmmelvais non fu creduto e, peggio ancora, fu osteggiato. La classe medica non accettava l’idea di essere essa stessa la propagatrice delle infezioni e lasciò trascorrere vari decenni prima di riconoscere che Sèmmelvais aveva ragione.

Fino a un secolo fa, i medici ignoravano quasi tutto delle malattie e non possedevano mezzi adeguati a combatterle. Josef Skòda, direttore della clinica medica di Vienna tra il 1846 e il 1871, espresse questo stato di impotenza teorizzando il nichilismo terapeutico; il medico, in altre parole, avrebbe dovuto limitarsi alla diagnosi, astenendosi dal prescrivere rimedi. E in effetti i rimedi alla moda erano i vomitivi, le purghe e i salassi, che quasi sempre contribuivano ad aggravare le condizioni dei pazienti. I salassi erano compiuti praticando incisioni o applicando mignatte. E la mignatta o sanguisuga, come leggiamo in un dizionario del 1879, è un verme nericcio e bislungo, che sta ne’ fossi, bruno, punteggiato di nero con strisce giàllicce, e che si usa in medicina per attaccarla a varie parti del corpo umano, da cui succhia il sangue, non staccandosi se non quando è pieno zeppo di esso.

Nell’epoca preindustriale non erano molti gli individui che arrivavano a celebrare il cinquantesimo compleanno. Nella Roma dell’imperatore Caracalla, questo traguardo era raggiunto appena dal 15 per cento dei nati. Nell’Europa di due o tre secoli or sono dal 30 per cento dei nati. Oggi accade che oltre il 90 per cento di coloro che hanno la fortuna di nascere nei paesi industrializzati riescano a superare il cinquantesimo anno. La durata media della vita, nei paesi economicamente sviluppati, supera largamente i settant’anni. E questo risultato è stato ottenuto, nelle società industria- lizzate, grazie a un insieme di fattori, tra i quali vanno ricordati la maggiore abbondanza di cibo, la crescita dei redditi, le abitazioni più confortevoli e ovviamente i progressi della sanità. Finora si era sempre pensato che l’alimentazione avesse costituito il fattore decisivo, ma oggi alcuni ritengono che nel lungo periodo i fenomeni demografici siano dipesi più dai cicli  epidemiologici che dai livelli alimentari. È certo, in ogni caso, che le carenze alimentari, se contribuirono alla diffusione di molte grandi malattie dell’epoca preindustriale come il rachitismo, la pellagra, lo scorbuto, il gozzo, il nanismo, il colera, la lebbra, la tubercolosi e il morbillo, esercitarono un influsso incerto e variabile sul tifo, la difterite, la sifilide, e un influsso minimo o addirittura inesistente sul vaiolo, la malaria, la peste, il tetano. È insomma certo che non soltanto la maggiore abbondanza di cibo, determinata dalla rivoluzione industriale, ma anche e forse soprattutto i cambiamenti intervenuti nell’igiene e nella sanità, determinati da quella stessa rivoluzione, hanno consentito all’umanità di vivere meglio e più a lungo.

Per il settore igienico-sanitario come per ogni altro settore della vita collettiva, incontriamo frequenti cambiamenti, scoperte, innovazioni e trasformazioni già nell’epoca preindustriale; dobbiamo tuttavia riconoscere che soltanto in seguito alla rivoluzione capitalistica dell’epoca contemporanea queste trasformazioni sono

divenute travolgenti e capaci di coinvolgere le grandi masse. Mi sembra significativo il fatto che una delle prime industrie del tempo nuovo, l’industria cotoniera, abbia avuto un’importanza fondamentale nel miglioramento delle condizioni di salute delle masse. La riduzione del tifo esantematico e di altre malattie, prima ancora che dalle scoperte scientifiche, fu determinata infatti dalla diffusione di indumenti di cotone a buon mercato, facilmente lavabili e cambiabili.

Durante l’epoca agricola, l’igiene corporea lasciava molto a desiderare anche nella civilissima Europa. C’era una grande diffidenza verso l’acqua. Si temeva che essa potesse penetrare nei corpi attraverso i pori, e che l’immersione in bagni caldi potesse nuocere alla salute e indurre al peccato. Pulirsi significava soprattutto cambiarsi di indumenti; ma finché le industrie tessili non si propagarono, soltanto una ristretta élite possedette indumenti di ricambio. Nel 1779 i corpi dei soldati francesi emanavano odori nauseabondi, tanto che un riformatore illuminato chiese invano che la biancheria del soldato fosse cambiata almeno una volta alla settimana, e le calze due. Alla fine del Settecento quasi tutte le città europee, compresa Parigi, erano sporche, inquinate, mefitiche. A Le Hàvre, ancora nel 1849, soltanto le case nuove dei ricchi erano munite di pozzi neri; a Parigi, nel 1856, più di due terzi delle abitazioni restavano prive di acqua corrente; a Roma, agli inizi del Novecento, i nuovi edifici costruiti per la borghesia impiegatizia non possedevano bagni e moltissimi abitanti della capitale continuavano ad emanare cattivo odore. A Milano, il grande impianto dell’acqua potabile e della rete di fognature fu iniziato soltanto nel 1888. Da un’inchiesta ordinata nel 1885 dal ministero dell’Interno, risultò che almeno duemila comuni italiani avevano urgenza di provvedersi di acqua potabile salubre in quantità sufficiente. Anche nelle campagne i contadini italiani erano costretti a bere l’acqua di pozzi inquinati e, più in generale, a vivere in condizioni igieniche assai precarie. Molto spesso le loro abitazioni erano locali privi di luce, in cui essi coabitavano con gli animali.

Le condizioni sanitarie dei bambini e delle donne erano particolarmente gravi. Gli adulti, in generale, assumevano un atteggiamento di relativa indifferenza nei riguardi dell’infanzia, né poteva essere altrimenti in un’epoca in cui la mortalità infantile raggiungeva livelli elevatissimi. 1 bambini morivano d’inverno soprattutto per le malattie polmonari e d’estate per quelle intestinali. In Italia, nel trentennio 1863-92, il 47 per cento dei morti contava meno di 5 anni di età e il 37 per cento dei nati moriva prima di aver raggiunto il quinto anno. Oggi, dati del 1983, queste percentuali si sono ridotte rispettivamente all’ 1,44 e all’ 1,55.1 bambini sono oggetto di grande protezione e la pediatria costituisce oggi un settore sviluppatissimo dell’arte medica, mentre un secolo fa essa poteva contare soltanto pochi specialisti isolati. Perfino negli Stati Uniti d’America, intorno al 1900, non c’erano probabilmente più di cinquanta medici che si interessassero di pediatria, mentre oggi ce ne sono più di ventimila.

Quanto alle donne va subito detto che la condizione di inferiorità e di segregazione da esse vissuta nei secoli trascorsi si rifletteva immancabilmente nel rapporto con i medici e con la medicina. Nel mondo contadino ottocentesco, il marito di solito cercava di non chiamare il medico quando la moglie si ammalava, mentre si precipitava a chiamare il veterinario se si ammalava la mucca. Ma le stesse donne erano riluttanti ad allacciare rapporti col mondo medico, perché questo era essenzialmente un mondo maschile e per l’imbarazzo suscitato da numerose malattie femminili. Le donne tendevano a curarsi da sole, con l’aiuto delle parenti, di levatrici praticone, di fattucchiere, di maghe. Castiglioni scrisse che l’ostetricia usci dalla sfera della medicina generale e si affermò come disciplina autonoma negli insegnamenti universitari soltanto nel diciannovesimo secolo. Ma agli studenti di varie università europee, fin verso la fine dei secolo, restò impossibile compiere esercizi pratici di ostetricia e ginecologia, soprattutto per l’opposizione esercitata al riguardo dal personale religioso degli ospedali.

Si credeva che il salasso avesse effetti benefici in quasi tutte le malattie, comprese le polmoniti e le congiuntiviti purulente. La grande moda delle sanguisughe conobbe il suo maggior successo nei primi decenni dell’Ottocento, tanto che nella sola Francia se ne importarono 41 milioni nel 1833, e

30 milioni nel 1844. La moda prese poi a declinare, ma occorsero altri decenni perché scomparisse, soprattutto in Italia. Venivano di frequente

salassate anche le donne incinte, nella convinzione che altrimenti il bambino sarebbe affogato nel sangue durante il parto, e in talune campagne dell’Europa centrale questa pratica sopravvisse fino al ventesimo secolo.

La prima esportazione radicale di un cancro alla mammella potè essere compiuta, negli Stati Uniti, soltanto nel 1882.1 tagli cesarei comportarono a lungo fischi gravissimi e per molto tempo si fece ricorso ad essi solo in casi eccezionali. Su 120 tagli cesarei operati negli Stati Uniti fra il 1852 e il 1880, 70, vale a dire il 58 per cento, si conclusero con la morte della puerpera. Ma nell’Ottocento anche i parti normali comportavano gravissimi rischi, sia perché negli ospedali , come abbiamo già visto, la mortalità da infezione era elevatissima, sia perché nelle case le mammane strattonavano i nascituri, bucavano i sacchi amniotici servendosi magari delle unghie e quasi sempre non sapevano compiere il rivolgimento dei feti. Alla fine si mandava a chiamare il medico, ma nelle campagne tanto meno qualificata era la levatrice, tanto più lunga era la strada che il medico doveva percorrere a cavallo. D’altra parte lo stesso medico, fino al millenovecento non aveva a disposizione molti mezzi per frenare le emorragie interne.

La grande svolta della medicina moderna cominciò ad aver luogo nell’ultimo venticinquennio del secolo scorso. Già intorno alla metà dell’Ottocento erano state registrate novità che avrebbero prodotto notevoli conseguenze sulla salute delle masse; si pensi fra l’altro all’utilizzazione dell’acido fenico e a quella del cloroformio. Ma una serie impressionante di scoperte si susseguì tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

Nel 1875 Armàuer Hànsen individuò il bacillo della lebbra. Nel 1879, si scoprì il gonococco. Ebert, nel 1880, diede la prima descrizione del bacillo del tifo. Nel 1882 Robert Kòc comunicò di aver scoperto il bacillo della tubercolosi. Nel 1884 lo stesso Koch scoprì il vibrione del colera asiatico. Il bacillo della difterite fu individuato nel 1883 ma bisognò attendere il 1890 perché una cura specifica fosse messa a punto da Emil von Behring. Il bacillo del tetano fu individuato nel 1884. Nel 1885 la cura antirabbica di Pastèur fu per la prima volta applicata con successo su un bambino alsaziano. Sempre nel 1885 Ettore Marchiafava e Angelo Celli identificarono il parassita della malaria (e nel 1898 G.B. Grassi dimostrò che erano le zanzare anofele a trasmettere la malaria da uomo a uomo). Nel XIX secolo ancora si stentava a compiere una diagnosi  differenziata fra gonorrea, sifilide e ulcera molle, ma Schaudinn, nel 1905, scoprì lo spirocheta pallido, agente etiologico della sifilide, e von Wassermann, nel 1906, mise a punto la sierodiagnosi di questo male. Charl Nicoll, nel 1909, dimostrò che il tifo esantematico si trasmetteva attraverso i pidocchi dei vestiti. Dal 1913 fu introdotto il termine «vitamine» e si cominciò a capire quanto queste sostanze fossero indispensabili per prevenire e curare numerose malattie, come ad esempio la pellagra. Banting, nel 1921, introdusse l’uso dell’insulina nella terapia del diabete.

Questa lista di scoperte, benché incompleta, basta a farci capire quale salto di qualità fu compiuto dalla medicina tra la fine del- l’Ottocento e gli inizi del Novecento. Non bisogna mai dimenticare, tuttavia, che tra la scoperta della causa di una malattia, la messa a punto della diagnosi, l’introduzione della terapia adatta e la diffusione di questa terapia fra le masse, trascorsero anni e magari decenni. Fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, fra l’altro, non furono disponibili rimedi risolutivi contro le malattie infettive più comuni, quali la polmonite, la meningite, le setticemie, la blenorragia e molte infezioni intestinali e renali. I sulfamidici, infatti, vennero sperimentati per la prima volta nel 1933, e cominciarono a diffondersi soltanto alla vigilia della seconda guerra mondiale. Gli antibiotici arrivarono nelle farmacie soltanto alla fine della guerra e i vaccini antipolio ancora più tardi. Si può ragionevolmente sostenere che, fino alla metà del secolo XX, i medici di tutto il mondo furono spesso in grado di diagnosticare, ma raramente in grado di guarire.

La rivoluzione industriale è stata all’origine di questa possibilità di guarire da tanti mali, perché essa ha favorito lo sviluppo scientifico, perché ha fornito gli strumenti necessari alle diagnosi e alle operazioni chirurgiche e perché ha consentito lo sviluppo farmaceutico. Una certa industrializzazione della farmacia cominciò ad essere avvertita, nei paesi sviluppati, fin dalla metà dell’Ottocento. Furono introdotte sul mercato specialità con caratteri uniformi, facilmente misurabili e comparvero le prime pasticche preconfezionate, i confetti, le capsule. Ma si era molto lontani dalla realtà del nostro tempo. Un farmacista dei primi del Novecento sarebbe colto da vertigini entrando in una farmacia d’oggi. La vera industrializzazione della farmacia è un fenomeno recente.

D’altra parte la rivoluzione industriale ha consentito il grande sviluppo dei laboratori di analisi, delle indagini anàtomopatologiche, della microscopia, dell’endoscopia, della elettrocardiografia, della ecografìa e della radiologia. La scoperta dei raggi X, comunicata nel dicembre del 1895 in una storica seduta della Società fisicomedica di Wùrzburg dal prof. Rontgèn, aprì un’epoca nuova nella storia della diagnostica e della terapia medica. La tomografia assiale computerizzata (Tac), oggi in via di espansione, ha ulteriormente perfezionato la tecnica radiografica. Oggi, pertanto, i medici e i chirurghi di tutto il mondo dispongono di un notevole supporto diagnostico, mentre fino a poco tempo fa erano costretti a prendere molte decisioni piuttosto alla cieca. Soltanto la rivoluzione industriale ha reso possibili la chirurgia del cervello e quelle del cuore, del polmone, dei trapianti, delle operazioni plastiche. Fino a un secolo fa, come si è detto, il chirurgo lavorava in ambienti precari e infetti, indossando una giacchetta insanguina-ta; oggi il chirurgo opera in una camera asettica, sotto la luce di potenti lampade, con il sussidio di impianti moderni, di camici usa e getta, di guanti usa e getta, di siringhe usa e getta, di cucitrici meccaniche, di fili sintetici e di altri prodotti industriali.

Anche i gabinetti dentistici sono oggi dotati di impianti moderni e di farmaci atti a lenire il dolore. Fino a pochi decenni fa imperversavano i cavadenti privi di laurea, che torturavano i malcapitati clienti con le loro tenaglie. Un decreto del 1890 stabilì che in Italia chi voleva esercitare l’odontoiatria dovesse laurearsi in medicina e chirurgia, ma la norma non potè essere applicata e  ancora nel 1911 circa il 70 per cento dei dentisti operanti in Italia continuavano ad essere privi di laurea.

L’epoca industriale ha migliorato l’igiene, non soltanto per aver portato l’acqua corrente nelle case o per aver introdotto i tessuti di cotone a buon mercato, come si è accennato nelle pagine precedenti, ma anche per aver diffuso saponi, detersivi, lavapiatti, lavapanni e aspirapolvere. In Inghilterra, nel 1867, il giovane droghiere James Lever doveva ancora tagliare col coltello grossi e rozzi pani di sapone. Oggi la grande multinazionale che da lui ha preso il nome, l’Unilèver, produce ogni giorno tonnellate di saponette, di detersivi e di prodotti di bellezza. La parola bellezza, ci fa ricordare che le grandi trasformazioni dell’igiene e della medicina hanno non soltanto allungato la vita delle persone, ma reso più gradevole il loro aspetto. Fino agli inizi di questo secolo, anche nei paesi industrializzati, un gran numero di uomini e di donne avevano le bocche sdentate, i volti segnati da pustole andate in suppurazione o butterati dal vaiolo (anche per questo le signore amavano coprirsi con la veletta). Solo pochi raffinati si facevano la barba tutti i giorni e solo le pubbliche peccatrici usavano il rossetto. A.C. Jemolo, ricordando l’Italia dei primi del Novecento, ha scritto che, uomini e donne invecchiavano molto presto; il quarantenne era già un attempato, il cinquantenne era già un vecchio.

Questi aspetti negativi del mondo di ieri non debbono farci dimenticare che anche la medicina di oggi presenta i suoi inconvenienti. Esistono gravi preoccupazioni per il diffondersi delle malattie iatrogene (vale a dire delle malattie generate da un uso eccessivo o errato dei farmaci), per le difficoltà insorte nel rapporto medico malato, per le prospettive aperte dalla manipolazione biogenetica e, infine, per i cambiamenti intervenuti in campo demografico, declino demografico nei paesi industrializzati e intensa crescita, viceversa, in quelli non ancora industrializzati.

Le malattie iatrogene corrispondono in certo qual modo alla obesità di cui oggi ci si lamenta tanto spesso: dopo secoli di carestie e di insicurezza alimentare i popoli dei paesi industrializzati si sono gettati sul cibo con grande voracità; era inevitabile che dopo secoli di insicurezza sanitaria questi popoli si gettassero sulle medicine con analoga voracità. Un atteggiamento più equilibrato potrà maturare col tempo.

La figura rassicurante del medico di famiglia è scomparsa, perché i medici di oggi sono quasi sempre frettolosi, anonimi ed evitano di recarsi a domicilio. Tuttavia essi conoscono le malattie e le terapie molto meglio dei loro predecessori. I medici di famiglia apparivano rassicuranti soprattutto perché sapevano ascoltare.

Oggi i pazienti possono farsi ascoltare dagli specialisti della psiche, dai seguaci di Freud, dai cultori della scienza nuova che è nata appunto con la società industriale, in quegli stessi anni così pieni di fermenti e di creatività posti a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.

La manipolazione biogenetica può essere vista come una promessa o come una minaccia, come un bene o come un male. Dipenderà dall’uso che se ne farà. Ma le prospettive future della scienza hanno sempre avuto e sempre avranno un profilo ambiguo. Il treno e l’automobile possono darci la velocità e la catastrofe. L’elettricità può darci la luce e la morte. L’energia nucleare può darci la pace e la guerra. L’umanità ha continuamente provato disagio di fronte alle innovazioni scientifiche dato che esse distruggono il mondo conosciuto, accelerano l’arrivo dell’ignoto, e pongono la stessa umanità di fronte a scelte inquietanti. Bisognerebbe infine saper rinunziare all’utopia che queste stesse innovazioni possano condurre alla soluzione dei problemi dell’uomo. Come Machiavelli ci ha insegnato, nelle cose umane, non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne sorga un altro.


LA MALARIA.

 Centinaia di migliaia di vittime ogni anno. Come le zanzare, la malaria ci accompagna da molto, molto tempo.

 Durante le vacanze c’è chi ha avuto il desiderio e la fortuna di viaggiare, talvolta in territori che comportano qualche rischio in più per la nostra salute. Si tratta spesso di luoghi straordinari, dal punto di vista naturalistico, artistico, culturale e umano, ma che richiedono qualche accortezza in più. Soprattutto quando massiccia è la presenza delle zanzare.

 LE ZANZARE E LA MALARIA.

 Che le zanzare (insieme all’essere umano) siano gli animali più letali del pianeta è stranoto. Alcune specie sono infatti responsabili della diffusione di patologie che vanno dalla Dengue alla febbre gialla, dall’encefalite giapponese fino alla malaria. Secondo le stime dell’ultimo World malaria report, ossia il dato più recente disponibile, nel 2020 ci sono stati 241 milioni di casi di malaria e 627.000 morti, 14 milioni di casi in più e 69.000 morti in eccesso rispetto al 2019, in parte attribuibili anche ai disservizi nell’assistenza sanitaria causati dalla pandemia. Una piaga dunque che colpisce l’umanità, soprattutto in determinate aree del pianeta, Africa in primis. Nei paesi dell’Africa subsahariana si registrano infatti il 95 per cento dei casi di contagio e il 96 per cento di tutte le morti del 2020. L’80 per cento dei decessi riguarda bambini da 0 a 5 anni di età.

 UNA STORIA ANTICA, ANZI ANTICHISSIMA.

 La malaria risale ad almeno cento milioni di anni fa. Secondo uno studio pubblicato all’inizio del 2019 su Historical Biology dai ricercatori statunitensi dell’Università della California di Davis e Berkeley e dell'Oregon State University di Corvallis, le zanzare anopheles che veicolano la malattia erano presenti fin d’allora. Una specie di zanzara preistorica, Priscoculex burmanicus, è stata infatti rinvenuta in un campione di ambra cristallizzata trovato in una grotta del Myanmar e risente al Cretaceo centrale. Diverse caratteristiche, comprese quelle relative a vene, proboscide, antenne e addome, indicano che Priscoculex sarebbe l’antenata della zanzara anofele. Secondo George Poinar Jr., dell’Oregon State University's College of Science e direttore della ricerca, la malaria potrebbe aver contribuito all’estinzione dei dinosauri circa 65 milioni anni fa. In quel periodo si sono sì verificati, secondo lo scienziato, eventi catastrofici come la caduta di asteroidi, cambiamenti climatici ed eruzioni di lava; ma è anche vero che i dinosauri si sono estinti lentamente nel corso di migliaia di anni, il che suggerisce che abbiano contribuito altri fattori. Insetti, patogeni microbici come la malaria e altre malattie che colpiscono i vertebrati stavano emergendo proprio in quel periodo. Si ipotizza, addirittura, che Anophelinae potrebbero aver avuto origine persino nel Gondwana, il supercontinente esistito per circa 370 milioni di anni, approssimativamente da 660 a 290 milioni di anni fa.

 DAI TESTI SUMERICI A IPPOCRATE FINO AI ROMANI.

 «I sintomi della malaria, come febbre accompagnata brividi, mal di testa, mal di schiena, sudorazione profusa, dolori muscolari, nausea, vomito, diarrea, tosse, aumento delle dimensioni della milza», spiega Antonella Castagna, primario di Malattie Infettive all’IRCCS Ospedale San Raffaele e docente di Malattie Infettive all’Università Vita-Salute San Raffaele, «venivano regolarmente menzionati in manoscritti antichi, a cominciare dagli scritti cinesi del Nei Ching, il canone cinese di medicina risalente al 2700 a.C. Ma anche testi precedenti come quelli di Sumeri ed Egizi (3500-4000 anni fa) riportavano casi di febbre e ingrandimento della milza e vere e proprie epidemie di febbre mortale. Nell’antica Grecia la malattia era stata accuratamente descritta da Ippocrate con una precisa distinzione tra febbri intermittenti, terzane e quartane (ogni tre o quattro giorni)». Anche la relazione tra malattia, ambiente e presenza di insetti pericolosi era stata da lui ampiamente indicata. Basti pensare alla derivazione del termine stesso per definire questa patologia: “mal aria". Secondo la medicina ippocratica, febbri remittenti e intermittenti

erano causate dall'aria cattiva (mal'aria) e dall'acqua putrida delle paludi, che producevano miasmi in grado di colpire coloro che vivevano intorno a queste aree a rischio. Anche nell’antica Roma la malaria, denominata non a caso “febbre palustre”, era associata alla presenza di paludi. Marco Terenzio Varrone, nel De re rustica, segnalava il pericolo del vivere nei pressi delle paludi.

 LA MALARIA IN EPOCA MODERNA.

 «La scoperta del plasmodio della malaria (di cui esistono diverse specie) la si deve», prosegue Castagna, «a Charles Louis Alphonse Laveran, medico dell’armata francese che per primo, nel 1880, lo riconobbe nel sangue di un paziente a Constantine, in Algeria. Molti sono poi stati gli scienziati italiani che hanno studiato a fondo la malaria. Ettore Marchiafava e Angelo Celli approfondirono le osservazioni di Laveran, descrivendo gli stadi di sviluppo del parassita nell’uomo e furono proprio loro a dare il nome di Plasmodium Falciparum al protozoo. Camillo Golgi negli anni 1895-96 dimostrò la relazione tra il ciclico sviluppo del plasmodio nel sangue e le caratteristiche periodiche febbri. Nel 1902 Ronald Ross fu premiato con il Nobel per la scoperta del meccanismo di trasmissione della malaria, da zanzara ad uomo. A Ross si deve la prima descrizione del ciclo del plasmodio degli uccelli, trasmesso dalle zanzare del genere Culex. Sebbene Ross avesse compreso anche il meccanismo di trasmissione della malaria umana, furono altri italiani, Giovanni Battista Grassi, Amico Bignami e Giuseppe Bastianelli a dimostrare che solo la zanzara del genere Anopheles poteva trasmettere i parassiti della malaria all’uomo. A questi scienziati si deva anche la scoperta del Plasmodium falciparum, quello più pericoloso e che miete più vittime, soprattutto nell’Africa subsahariana».

 ANCHE I TENTATIVI DI CURA RISALGONO A TEMPI REMOTI.

 «Nel 340 le proprietà antifebbrili della pianta del Qinghao (Artemisia annua) furono descritte dall’alchimista cinese, Ge Hong, della dinastia Yin», spiega Castagna, «Il principio attivo, l’artemesinina, venne identificato soltanto nel 1971 in Cina. Successivamente, nel 1979 vennero pubblicati i risultati delle prime sperimentazione nell’uomo e da allora sono stati estratti molti derivati, che costituiscono oggi la più efficace arma nella cura della malaria. Un altro rimedio fondamentale per la cura della malaria fu il chinino. Sappiamo che, nel corso del XVII secolo, i nativi peruviani fecero conoscere ai coloni spagnoli e in particolare ai missionari gesuiti, l’utilizzo della corteccia dell’albero della Chincona come rimedio per la cura delle febbri. In particolare, il primo scritto che ne indica le virtù curative risale al 1630. Secondo una leggenda, fu proprio con questa corteccia che venne curata la Contessa di Chincòn e moglie del vicerè del Perù, Señora Ana de Osorio. Da qui la derivazione del nome: corteccia del Perù e l’albero Cinchona (Cinchona officinalis). In Europa i primi a studiare e utilizzare l’estratto della corteccia furono i gesuiti e in particolare Barnabé de Cobo, che la portò in Europa nel 1632, e Juan de Lugo, che per primo ne utilizzò la tintura. La sostanza attiva, il chinino, venne estratta dai farmacisti francesi Joseph Pelletier e Joseph Caventou nel 1817. I due studiosi rifiutarono compensi e, invece di brevettare la loro scoperta, ne pubblicarono il processo di estrazione». Il chinino è stato per molti anni uno dei più efficaci rimedi contro la malaria.



LA    TUBERCOLOSI. 

Già nota come consunzione, la tubercolosi fu una malattia particolarmente celebre nel corso dell’Ottocento per la sua feroce capacità di mietere vittime negli ambiti sociali più diversi. Nel video vengono evidenziati sia gli aspetti inerenti la storia della medicina che quelli più propriamente vicini alla storia dei costumi, evidenziando gli insospettati legami tra tubercolosi, moda ed estetica ottocentesca.

La tubercolosi è una malattia provocata da un bacillo chiamato Mycobacterium tuberculosis, o bacillo di Koch. Il bacillo può colpire qualsiasi organo del corpo, ma di solito colpisce i polmoni, causando la morte per asfissia.

Il primo vero successo nell'immunizzazione contro la tubercolosi venne sviluppato da un ceppo attenuato di tubercolosi bovina da Albert Calmette e Camille Guérin ottenuto attraverso una serie di passaggi in terreno di coltura durati molti anni a partire dal 1908. Era chiamato "BCG" (Bacillo Calmette-Guérin).

COMUMQUE, FINO ALL’AVVENTO DEGLI ANTIBIOTICI, LE FAMIGLIE CHE AVEVANO UN MALATO DI TUBERCOLOSI IN CASA VIVEVANO UNA SORTA DI ESILIO DALLA SOCIETA’, CHE LI ISOLAVA, NEI CONTATTI UMANI, PER LOGICA PAURA DEL CONTAGIO.

I SANATORI PROMOSSI DAL FASCISMO, IN ZONE DI MONTAGNA, SONO UN ESEMPIO DELLLA GRANDE INCIDENZA CHE LA TBC AVEVA NELLA SOCIETA’ ITALIANA DI INIZIO NOVECENTO.

Come si trasmette

La tubercolosi si trasmette per via aerea, attraverso colpi di tosse o starnuti. La trasmissione può avvenire solamente da persone con TB attiva. Il periodo di incubazione (tempo intercorso tra l’infezione e i primi segni di malattia) va dalle otto settimane a tutta la vita.

La maggiore probabilità di progressione verso la malattia è entro i primi due anni dall’infezione, la metà di tutti i casi di malattia si verifica entro cinque anni dall’infezione. Le persone con infezione da TBC latente non sono mai contagiose. Il rischio di trasmissione, nei casi di TB attiva, è determinata:  da fattori propri del paziente dal tipo di contatto con l’ambiente circostante.

Il livello di contagiosità dei pazienti TB dipende dalla concentrazione di batteri nell’espettorato, dalla gravità della tosse e dalle pratiche igieniche attuate dal paziente. In generale, la maggiore probabilità di trasmissione è data dal contatto più stretto e/o più frequente.

Dopo due settimane di trattamento, le persone con tubercolosi attiva non resistente agli antibiotici cessano di essere contagiosi. Se qualcuno viene infettato, saranno necessari almeno 21 giorni, o 3-4 settimane prima che questo possa trasmettere la propria malattia agli altri

La tubercolosi è asintomatica

La più frequente è la tubercolosi polmonare, anche se la malattia può infettare qualsiasi parte del corpo. Purtroppo la tubercolosi polmonare è asintomatica. Spesso i sintomi iniziali sono poco specifici: tosse, perdita di peso, dolore toracico, febbre e sudorazioni; in caso di malattia conclamata, è di solito presente tosse per settimane o mesi, eventualmente accompagnata da sangue nell’espettorato.


Diagnosi

La TB è una malattia infettiva curabile e può essere sconfitta con le cure appropriate, ma soprattutto con la diagnosi precoce dei soggetti malati, cioè dei soggetti con TB attiva e quindi infettiva. Una diagnosi precoce consente di adottare gli opportuni interventi terapeutici e di ottenere la guarigione.

L’esame preliminare più diffuso, per diagnosticare una forma tubercolare, è il test della tubercolina (Mantoux), seguito poi da altri esami diagnostici.

Come si cura?

La terapia può durare da 6 mesi a 18-24 mesi. Per evitare che si instauri una resistenza ai farmaci antitubercolari, l’OMS e le Associazioni scientifiche hanno studiato una strategia chiamata DOT (Directly Observed Therapy), dalle lettere iniziali delle parole inglesi che significano Terapia Osservata Direttamente, ossia un regime di terapia, con cui il sanitario si assicura che il paziente assuma la sua dose di farmaci ogni giorno. Con questo tipo di trattamento terapeutico, seguito “diligentemente”, il periodo di cura della TB si riduce a circa 6-8 mesi. Introdotta negli anni ’90, la DOT è considerata, attualmente, uno dei metodi più efficaci per curare la TB e per evitare l’insorgenza della resistenza agli antibiotici.

SPAZIO, CORPI ED IGIENE DELLA GENTE CHE HA VISSUTO IN EPOCA PREINDUSTRIALE. VALE A DIRE FINE ALLE PORTE DEL 1900.
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Due diversi modi di concepire la città separano il mondo pre­industriale da quello industriale: si passa da un ordinamento che mette in mostra il potere, che lo mette in scena, con un castello in posizione centrale e dominante, a un ordinamento che intende viceversa gestire i flussi» accelerare le comunicazioni, moltiplicare e soprattutto collegare molti centri. Si passa da uno spazio «anti­co», visibilmente gerarchizzato, a uno spazio «contemporaneo», fisicamente frantumato» sparso, ma sempre più interconnesso, co­me nel caso degli allineamenti e degli anelli nella Parigi di Haussman. In questo caso si modifica l’infrastruttura stessa della città, il suo sottosuolo: spazio nascosto, capillarizzato, mondo sotterra­neo completamente segreto, e tuttavia essenziale. Case e quartieri sono sostenuti da una rete di canalizzazioni, distribuzioni e dre­naggi del tutto originali. Vi si moltiplicano i flussi, vi si combina­no i condotti di alimentazione e di scarico. L’acqua, il gas e, verso la fine del XIX secolo, l’elettricità sono i nuovi «oggetti» circolan­ti in grado di raggiungere ogni abitante nella sua sfera personale e privata: i punti di arrivo sono gli appartamenti c le camere, non più le fontane e gli edifici pubblici.

Non ci sono dubbi: i fluidi della città industriale, il loro tra­sporto, le loro ramificazioni, e soprattutto la loro relativa indivi­dualizzazione, conducono a una trasformazione dell’igiene. Gli oggetti sono cambiati. Lo spazio si è trasformato. Servizi e congegni del tutto originali si sono imposti. Si sono diffuse agiatezze com­pletamente nuove. Per un certo tempo queste novità riguardano sol­tanto l’élite, ma mettono in rilievo, come in un contrappunto, le pratiche igieniche, le apparecchiature e gli strumenti pre-industriali, appartenenti a un’epoca in cui l’acqua è «rara» c i lavaggi precari. Bisogna riconsiderare l’idea di pulizia nell’antichità, e vederla le­gata a una serie di mancanze, di privazioni e di carenze. 

Sarebbe tuttavia riduttivo proporre un’analisi esclusivamen­te «in negativo». La pulizia degli antichi non è soltanto un «me­no» rispetto a oggi, poiché essa possiede i suoi criteri e le sue esigenze, le sue regole e le sue rappresentazioni. È coerente e siste­matica. Afferma una sua «verità». Esistono pratiche legate a spe­cifiche sensibilità, ma anche comportamenti dipendenti da norme e da certezze.

1.       Lo spazio pubblico e il dominio dell’aria

Nella Parigi classica, in verità, troviamo ben poche fontane. Platter ne enumera sedici alla fine del XIV secolo, e alla fine del Settecento ne esistono una trentina. Ci sono alcune fonti (Belleville, Le Prc-Saint-Gervais, Arcueil), alcuni pozzi e da due a tremila acquaioli, molti dei quali attingono l’acqua dalla stessa Senna: «Il numero degli appartamenti è molto elevato e ogni borghese che pos­siede questo genere di abitazione incarica un uomo o una donna di portargli ogni giorno, all’ora stabilita, acqua potabile in quan­tità sufficiente»2. Agli inizi del XVII secolo una pompa idraulica viene istallata accanto al ponte di Notrc Dame. Essa ha un compi­to importante poiché, con una portata giornaliera di mille metri cubi, consente di raddoppiare la quantità d’acqua destinata alle fon­tane. L’acqua continua tuttavia a restare un bene raro. Si tratta infatti di una sostanza difficile da amministrare, alla quale biso­gna dedicare una quantità di domestici e di servizi, e difficile an­che da immagazzinare con recipienti, secchi e tini. Si tratta insomma di un bene ingombrante e poco maneggevole. Le quantità d’ac­qua disponibili nel XVII secolo appaiono ridicole se paragonate con quelle del XIX secolo. Il prestigio di Versailles non dipende tanto dai giochi d’acqua, quanto dalla loro abbondanza, dalla lo­ro portata — che costituisce una sfida al senso comune di quei tempi — e dalla capacità di dominare un elemento così prezioso e bizzar­ro. Ma si tratta appunto di un caso eccezionale.

Alla fine del XVII secolo la portata giornaliera delle fontane parigine non arriva a duemila metri cubi, il che, in una città di cin- quecentomila abitanti, equivale a meno di quattro litri a persona1. Una quantità davvero infima se paragonatala quella attuale, e che infatti è destinata a moltiplicarsi di cinquanta volle nel corso del- l’Ottocento, dopo i lavori compiuti da Haussman e Belgrand. Se ne deduce facilmente che l’uso dell’acqua è molto diverso da quel­lo di oggi. I bagni sono poco frequenti e i lavaggi limitati. La ge­stione collettiva dell’acqua ha ripercussioni evidenti sulle pratiche igieniche individuali. Nel XVII secolo, eccettuate alcune rare di­more principesche, nessuna abitazione parigina possiede una va­sca da bagno.

La collettività si interessa più dell’aria che dell’acqua. Le co­munità si preoccupano soprattutto dell’atmosfera, del clima, della purezza delle brezze e dei venti. Un esempio tipico è fornito dal comportamento del sovrintendente di Amiens, nel 1680. Questo rap­presentante del potere regio ritiene che per proteggere la popola­zione ci si debba occupare innanzi tutto dell’aria cittadina, e che per sventare i contagi si debba agire sulla qualità dell’aria, aprire spazi, creare «frescure», piantare alberi, superare i bastioni. Sem­bra necessario controllare gli odori e le esalazioni, più che le sor­genti e le fontane: «Per obbedire alle vostre buone intenzioni c al vostro desiderio di vigilare di continuo sul benessere delle città, mi sono deciso, ora che è tornata la pace, ad attuare il progetto, che già da tempo avevo in mente, di impiantare un gran bel viale accanto alla porta della strada per Pequigny: lo scopo è quello di impedire i contagi che di tanto in tanto affliggono questa città, cosicché il popolo che vi lavora al chiuso per tutta la settimana, cir­condato d’inverno dal fetore dei fuochi di torba, possa, per così dire, purificarsi in questo viale all’aperto. La città ne risulterebbe inoltre abbellita e attirerebbe un maggior numero di lavoratori da altri luoghi». L’aria deve essere depurata perché è ritenuta «re­sponsabile» di febbri e pestilenze, perché è vista come una minac­cia, piena di impurità e di misteriosi veleni, veicolo di «emanazioni», di esalazioni e di pericoli scarsamente controllabili. Secondo l’opi­nione tradizionale, la vera causa delle epidemie sta in ciò che mar­cisce e si decompone. Si accusano i terremoti, i tuoni, le nebbie di favorire febbri e malattie. Si temono le paludi e i ristagni. L’a­ria è considerata «il principale fattore della salute», e la sua putre­fazione — secondo Ambroise Paré — può «alterare, spezzare e corrompere l’armonia naturale». Lo dicono anche i viaggiatori. Challe, che alla fine del Settecento viaggia a lungo per i mari con l’incarico di inviare relazioni al re, insiste sulle condizioni dell’aria in ogni isola esplorata, ritenendo che esse forniscano il principale criterio per stabilire la salubrità dei luoghi. L’aria sembra costitui­re l’unica speranza per guarire dalle malattie contratte in mare e, in ogni caso, l’unica garanzia per una buona convalescenza. IL fatto che nell’isola del Madagascar, per esempio, non sia morto nessun membro dell’equipaggio costituisce per Challe «un segno evidente della purezza e della salubrità dell’aria»6; e nella Marti­nica l’aria sembra essere ancor più sana perché «non vi si conosce alcuna malattia dell’infanzia».


Più in generale, ci si preoccupa di registrare tante piccole diffe­renze e tante sfumature sui diversi luoghi, con una particolare at­tenzione alla loro atmosfera. Madame de Sévigné si preoccupa per i «densi vapori» che incombono su Grignan, ma anche per i venti che spazzano il castello, per il calore, la siccità, le nebbie, intimo­rita da ogni cambiamento di clima*. Madame de Maintenon giu­dica «detestabile» l’aria di Fontainebleau, che la «opprime con i suoi vapori», mentre l’aria di Versailles sarebbe capace di guarire «metà delle sue emicranie». E Lister, un viaggiatore inglese del­la fine del Seicento, incline alle analisi e ai confronti, parla insi­stentemente dell’asciuttezza e della leggerezza possedute dall’aria di Parigi, qualità che — Come egli assicura — consentono una mi­glior conservazione di carne e frutta, e offrono una maggior pro­tezione contro febbri e malattie.

Va dunque ribadita la scarsa disponibilità di acqua nel mondo pre-industriale, per le differenze evidenti in termini di quantità, qua­lità, regolarità di distribuzione, efficienza  di collegamenti, rapidità e facilità dei trasporti. Ma va anche ribadito fino a qual punto, nel XVII secolo, ci si occupi più dell’aria che dell’acqua. ' L’attenzione collettiva è rivolta soprattutto verso il clima, le neb­bie, i vapori. Da un punto di vista sanitario ci si preoccupa innanzi tutto delle stagioni, delle temperature, dei venti. Le collettività ope­rano i loro interventi nel mondo dell’aria (spostamenti di depositi maleodoranti, sgomberi vari, falò nelle strade per allontanare la peste, ecc.), più che nel mondo dell’acqua. Sopravvivono a lungo le preoccupazioni rivelateci da Pierre de l’Etoile: «Quel giorno, a Parigi, ci fu una grande pioggia e rimbombò un tuono che provo­cò un gran numero di malattie contagiose». Si tratta di conce­zioni primitive, senza dubbio, determinate dal fatto che l’aria tocca, circonda, avvolge i corpi e li fa respirare.

Coloro che poi dispongono di molta acqua, ne utilizzano poca o nulla. Gli abitanti di castelli e palazzi direttamente alimentati da fonti e canali non fanno mai o quasi mai il bagno. Non hanno idea di una pulizia personale fondata sull’uso dell’acqua. Il con­cetto di igiene personale è dunque molto diverso da quello di og­gi. Cerchiamo ora di capire meglio i suoi caratteri e la sua evo­luzione.

2.       Il concetto di igiene e la diffidenza per l'acqua

È impossibile capire l’antico concetto di pulizia senza prendere in considerazione la paura dell’acqua, senza ricordare il senso di ripugnanza e di pericolo provocato dal bagno. É una ripugnanza alimentata dalle epidemie (in particolare dalle grandi pestilenze) e legata, più in generale, alle minacce attribuite, ancora una volta, all’aria. Ambroise Pare ci offre una serie di immagini assai evoca­trici: l’acqua (soprattutto quella calda) trafigge la carne, ne apre i pori e la rende fragile. I medici, specialmente durante le pestilen­ze, «debbono proibire i bagni, dai quali si esce con la carne inde­bolita e i pori aperti, di modo che i vapori pestiferi possono subito penetrare dovunque e provocare una morte immediata, come è stato molte volte riscontrato». Questa paura permane e si rafforza durante l’intero secolo XVII. Le frequenti pestilenze ripropongono gli stessi divieti, determinati dall’idea che riscaldare il corpo «si­gnificherebbe aprire le porte ai veleni dell’aria e berli a piene ma­ni». L’incontro tra il corpo riscaldato e questi veleni dell’aria produrrebbe conseguenze pressoché irreparabili e farsi il bagno, insomma, salvo precauzioni infinite, è considerato rischioso, di­ciamo pure fatale.

Allorché, un mattino del 1610, rinviato del re accompagnalo da altri dignitari trova Sully che sta facendo il bagno nella sua re­sidenza dell’Arsenal, lo scongiura di non esporsi all’aria: «Signore — gli dice — non uscite dal bagno poiché penso che il re, che tanto si preoccupa della vostra salute e che vi considera cosi prezioso, se solo vi avesse visto in tale stato, sarebbe egli stesso venuto da voi». L’inviato di Enrico IV decide quindi di tornare al Louvre per informare il re e ricevere ulteriori disposizioni. Nessuno si stu­pisce del fatto che una circostanza come quella possa turbare le relazioni tra il re e un suo ministro. Anzi, tutti insistono perché Sully non si esponga all’aria. La risposta di Enrico IV, del resto, conferma le precauzioni adottate: «Signore, il re vi manda a dire di completare il bagno e vi proibisce per oggi di uscire, dato che il Signor Du Laurens gli ha assicurato che ciò recherebbe pregiudizio alla vostra salute». L’episodio prende il carattere di un affare di Stato, capace di mobilitare parecchi personaggi, fra i quali du Lau­rens, medico del re. I «rischi» sono tanti: «li re vi ordina di atten­derlo domani con indosso la vostra camicia da notte, i calzini, le pantofole, il berretto, per evitare di ammalarvi a causa del bagno». Tanto scalpore attorno a una tinozza da bagno non è un semplice vaniloquio; ci aiuta invece a comprendere quanto fosse forte, nel XVII secolo, il timore dell’acqua che può infiltrarsi nei corpi, c quanto fosse raro l’uso del bagno.

IL timore è ancora più forte nell’epoca classici, quando si pen­sa che la minaccia riguardi le parti più impensate del corpo. Con l’acqua, infatti, la testa si riempirebbe di vapori, i nervi perdereb­bero vigore, le articolazioni sarebbero colpite da terribili gonfiori. L’acqua si insinuerebbe dovunque moltiplicando disfunzioni, squi­libri, c addirittura provocando le cosiddette «gravidanze da bagno», attribuite alla fecondazione della donna da pane di spermatozoi vaganti nell’acqua tiepida!

Questi timori conducono a una logica di prevenzione del tutto diversa da quella attuale. Presuppongono una concezione del fun­zionamento del corpo umano del tutto diversa dalla nostra. Quan­do i testi di medicina del XVI secolo, per esempio, trattano di alcuni odori del corpo, dicono pure che è necessario eliminarli. Ma con­sigliano di ricorrere a frizioni e profumi, più che a lavaggi. Bisogna frizionare la pelle con un panno profumato: «Per eliminare il puz­zo delle ascelle, così simile a quello dei conigli selvatici, si può sfre­garne la pelle con i conetti per i suffumigi all’essenza di rosa». Asciugar bene, lasciando che il profumo si depositi, c non lavare.

Le norme contenute nei galatei, che dal XVI secolo regolano a corte le buone maniere e il buongusto, sono significative. Esse elencano le cose da fare per comportarsi da «nobili» in ogni situa­zione concreta e magari banale, privata o pubblica, e si interessa­no alla «pulizia del corpo» in modo sistematico. Il fatto più im­portante non è tanto che i galatei ignorino il bagno, ma che si preoccupino soltanto di quel che si vede: le mani e il viso. «Lavar­si il viso al mattino con l'acqua fredda è atto conveniente e saluta­re». Talvolta la buona creanza e l’igiene appaiono strettamente collegate: «É una questione di pulizia e di salute lavarsi il viso e le mani dopo essersi alzati».

Ma nei galatei continua ancora a manifestarsi la diffidenza verso l’acqua. I liquidi suscitano preoccupazione, soprattutto nel XVII secolo, perché c’è l’idea che il viso sia «fragile». Nella buona so­cietà si adottano misure perché esso sia asciugato anziché lavato: «I bambini si puliranno il viso e gli occhi con un panno bianco, che serve a togliere il sudiciume senza sciupare la carnagione. La­varsi con l'acqua nuoce alla vista, provoca mal di denti e catarro, e fa impallidire il volto, rendendolo sensibile al freddo invernale e ai caldi venti dell’estate». Siamo di fronte agli stessi timori già manifestati per il bagno. Non si parla più di lavarsi, anche se per­siste (e in un certo senso si precisa) una certa idea di pulizia. Un gesto si sostituisce all’altro: tergere, anziché aspergere. Ovviamen­te, anche in questo caso, l’idea che si ha del corpo esercita la sua influenza, e l'idea è quella secondo la quale la pelle, infiltrata dai liquidi, possa assorbire tutte le malattie. L’ideale è quello di pulir­si «a secco».

IL modello affermatosi nella società di corte è d’altronde con­geniale ad un’aristocrazia che si preoccupa dell’apparenza, del con­tegno, del portamento, di ciò che è visibile e immediatamente percepibile. Non si tratta solo di mettere in mostra il proprio abbi­gliamento, ma di esser sapienti nell’arte di illudere c di recitare. L’apparenza è un valore, da conquistare con una tecnica teatrale. Con ciò si spiegano la grande abbondanza di profumi e la solleci­tudine continua per gli odori che derivano da una convinzione ti­pica di quel tempo: il profumo «pulisce» in quanto soffoca i cattivi odori, sopprime il sudiciume in quanto lo maschera, purifica e «la­va». La sola presenza di un odore gradevole equivale a pulizia. Es­sere puliti significa avere i capelli cosparsi di cipria alla rosa mu­schiata, alla rosa moscata, alla rosa comune, alla giunchiglia, al giacinto, all’ambretta, ai fiori d’arancio, alla frangipana, al mu­schio di quercia; significa impomatare parrucche e capelli con es­senze e oli di oliva, mandorla, gelsomino, tuberosa; significa stro­finare la pelle con saponette di Bologna o di Milano, al limone, all’arancia, grige o nere significa ancora spruzzare il corpo o le mani con aceti aromatici, con «acqua d’angelo», col «mille fiori», con essenze di fiori d’arancio, di bergamotto, di limone, di garo­fano. Una profusione tanto più sbalorditiva, se si tiene conto del­l’assenza dell’acqua. Essere puliti, significa inoltre portare sacchetti aromatici nei risvolti del farsetto e tra le pieghe delle vesti, avere guanti profumati al muschio o allo zibetto, foderare i cappelli con petali di rose e polvere d’iris, profumare ornamenti, medaglie e anelli con cipria alla Marescialla. Anche la biancheria è intrisa di aro­mi. I profumi sono a volte così intensi da rendere complicata perfino l’apertura di un baule. 1 presenti quasi soffocano allorché, nel 1649, i servi aprono, a Sainl-Germain, i bauli della regina. Tutti scappa­no e non osano respirare finché le casse non siano state aereate. Dunque, ecco di nuovo l’aria, unita a uno sforzo del tutto partico­lare di «trattare» gli odori.


Si cerca soprattutto di fare effetto, di far colpo sugli altri, di sconvolgere. La «pulizia» è intesa come messa in scena, come rap­presentazione, come gioco esplicitamente basato su segni visivi e olfattivi, come attività di spettacolo e pura apparenza.

Questa attività, tuttavia, ha una storia e un’evoluzione. Molte trasformazioni precedettero il capovolgimento di valori avvenuto nel secolo XIX. Il concetto di pulizia subì molte fasi. Cerchiamo adesso di accennare a questa evoluzione.

3.       Una storia «lenta»

La pulizia che si fonda su un uso assai limitato dell’acqua, sul- l’asciugarsi, sul profumarsi, sull’apparenza, vive anche un’altra sto­ria più profonda e significativa: quella dell’intimità. Da questo punto di vista i segni del cambiamento sono assai significativi. La stessa «pulizia a secco» ha una sua storia perché — tra il XVI e il XVIII secolo — essa diventa molto più esigente, diversificata e complicata. Aumentando le preoccupazioni, le attenzioni e le cure (con una maggiore frequenza di interventi, per esempio, o con l’u­so di un maggior numero di strumenti) muta il rapporto con le in­timità del corpo e, più in generale, con la sfera personale e privata.

Pensiamo per esempio all’uso della biancheria personale. Mentre agli inizi del XVI secolo essa è poco curata e poco cambiata, nei decenni e secoli seguenti è curata e cambiata sempre più spesso. Caratteri e ampiezza delle trasformazioni sono dimostrabili soprat­tutto all’interno delle comunità. E le cifre indicano una crescita co­stante. Nei collegi dei gesuiti la camicia viene cambiata una volta al mese alla fine dei Cinquecento, una volta alla settimana nel 1620, due volte alla settimana alla fine del Seicento. Cresce anche il nu­mero dei capi di vestiario da cambiare, perché si tiene sempre più conto di calze, scarpe, cappelli, colletti. E si pone sempre maggio­re attenzione alle condizioni dei capelli, delle unghie, dei polsini. Ma nel corso del tempo si determina soprattutto un lento spostarsi dell’attenzione dai fatti esteriori a quelli più intimi, dal più visibile al meno visibile. Testi, precetti e regolamenti fanno capire che la pelle, le zone nascoste e coperte, le superfici «inaccessibili» assu­mono un’importanza maggiore. L’interesse crescente per la bian­cheria intima, nel Seicento, è già una strada per arrivare a quel che si nasconde allo sguardo. La pulizia della camicia diventa un se­gno di prestigio, perché costituisce una testimonianza visibile, una rivelazione di quanto resta nascosto. E ciò dimostra la maggiore importanza assunta da quel che è «intimo» e dall’«arte» di metter­lo in mostra.                                                                                  

Questa importanza aumenta ancora nei decenni seguenti La­vaggi parziali, «mezzi-bagni» e pulizie locali cominciano ad essere raccomandati nel corso del XVIII secolo. Sono anche pubblicale le prime dissertazioni sulle abluzioni, con numerose polemiche da parte dei medici. Nuovi strumenti sono «inventati», come i bidè, i lavabi, le vasche scaldatoli. Ci troviamo di fronte, in altre parole, a una rivalutazione del corpo, a un’attenzione inconsueta per l’i­giene delle sue zone segrete, e tutto questo in un’epoca in cui la quantità di acqua disponibile non è molto cambiata. Assistiamo a una trasformazione dei discorsi e dei comportamenti, ad un affi­namento delle sensibilità, in un contesto economico che anch’esso non è molto cambiato. Durante la prima metà del Settecento, r ga­binetti cominciano a essete costruiti nelle abitazioni dell’alta so­cietà. All’interno dei grandi palazzi, dopo il 1730, le maggiori novità derivano dalla maggiore attenzione rivolta alla vita intima. Da ciò dipende la separazione delle stanze di rappresentanza dagli appar­tamenti privati. Da ciò dipende anche l’istituzione di stanze appo­sitamente destinate alla pulizia del corpo. E si tratta di ambienti con caratteristiche abbastanza specifiche perché, a partire dal 1760, si cominciano a vendere arredamenti completi ad essi destinati, dotati di toletta, rivestimenti per pareti e soffitti in tela dipinta, riser­va d’acqua.

Le abitudini cambiano con discrezione e prudenza, tanto è ve­ro che ancora nel 1801 — secondo i dati di Kraft — le stanze da bagno sono presenti soltanto nel 30 per cento dei palazzi di Parigi appartenenti alla categoria «lusso». Ma si tratta di un cambia­mento il quale indica fino a qual punto le idee sulla pulizia si siano evolute in un’epoca anteriore alla rivoluzione industriale. Nel mon­do pre-industriale è in corso una trasformazione profonda delle sen­sibilità e una lenta crescita dell’attenzione rivolta alla sfera intima. Si formano esigenze nuove dirette a modificare usi, atteggiamenti, bisogni e desideri relativi all’igiene personale. Tutto ciò costituisce una nuova conferma, fra tante altre, del fatto che anche il mondo pre-industriale possiede, evidentemente, una sua storia culturale. Ma costituisce anche una conferma del fatto che la storia della pu­lizia non è a priori legata agli sviluppi del trasporto dell’acqua.

A questo punto occorre però esaminare, sia pur brevemente, le connessioni con la rivoluzione industriale o, quanto meno, con le sue premesse.

4.       La rivoluzione e la storia «lenta»

È evidente che, durante la seconda metà del Settecento, il biso­gno d’acqua cresce di pari passo con le prime avvisaglie della rivo­luzione industriale. E a Parigi si discute sull’approvvigionamento idrico, si è incerti se sia più opportuno aumentare il numero delle pompe lungo la Senna (alcune delle quali, nel 1782, cominciano a utilizzare il vapore) o se convenga procedere a canalizzazioni, con grandi opere di scavo. Finirà per essere adottata questa seconda soluzione, molto più costosa e difficile, che consentirà di svilup­pare la rete di distribuzione con ramificazioni fino ai singoli ap­partamenti, a partire dal 1850.

É altresì evidente che, con la messa in opera dei primi canali, nell’Ottocento, le abitudini mutano: a Parigi, per esempio, i bagni pubblici passano dai quindici del 1816 agli oltre cento del 1837, dopo la definitiva istallazione del canale dell’Ourcq. La nuova disponibilità di acqua reca con sé nuove usanze: i bagni possono essere prima noleggiati e poi stabilmente istallali a casa propria, con una maggior frequenza di abluzioni. Ma al di là di questi fatti, occorre dire che la sensibilità collettiva si evolve in modo relativa­mente autonomo. E infatti il ritmo delle abluzioni, nel corso del- l’Ottocento, cresce assai lentamente (un bagno al mese, nel 1850, in un grande collegio privato di Parigi) e soprattutto accade che le antiche fantasie, riserve e prevenzioni restino vive a lungo. Balzac per esempio, nel 1837, dopo un mese e più di lavoro accanito, che non gli ha concesso tempo per radersi o lavarsi, teme di infiacchirsi con un bagno: «Dopo avervi scritto questa lettera, farò il mio primo bagno, non senza grande spavento, poiché ho paura di allentare le mie fibre tese al massimo, e debbo invece ricominciar a scrivere César Birotteau, che diventa ridicolo a furia di ritar­di». Anche Madame d’Alcq, grande esperta di bellezza femmi­nile, alla fine dell’ottocento ripete con insistenza che un bagno al giorno potrebbe essere «pericoloso».)Il tema del bagno che debili­ta e indebolisce è frequentemente ripreso dagli stessi medici nella seconda metà dell’ottocento: «Negli individui che fanno il bagno soltanto per capriccio, ha luogo un rilassamento anomalo delle membra, con perdita di tonicità». Umidità e debolezza continua­no a identificarsi parzialmente, a suscitare inquietudine, a rappre­sentare una minaccia, anche se viene messa in discussione la fre­quenza più che l’idea stessa del bagno, ed anche se i vantaggi del bagno non sono più negati: «Un numero troppo grande di bagni snerva, soprattutto se essi sono un po’ caldi».

Si intuisce come la rivoluzione industriale abbia potuto influi­re su pratiche igieniche che possedevano del resto una loro storia e una loro capacità di modificarsi. Si intuisce come lo sviluppo tec­nologico abbia fornito alle pratiche igieniche nuovi strumenti e nuo­vi utensili. Ma si intuisce anche come queste pratiche conservino una loro storia e una loro logica, e come l’evoluzione dell’igiene possieda una dinamica legata alla storia dell’intimità. Storia, que­sta, caratterizzata da punti di riferimento e da princìpi evolutivi che affondano le loro radici nell’epoca pre-industriale.