DA RAPAGNETTA A VATE
Gabriele D'Annunzio fortunato dalla nascita: suo papà cambiò cognome, quello vero non era tanto poetico
Gabriele D'Annunzio: il primo cognome di suo padre era Rapagnetta
Gabriele d'Annunzio fu perseguitato dalla fortuna, sin dalla nascita. Si sarebbe dovuto chiamare Rapagnetta, come suo nonno Camillo, come suo padre Francesco Paolo: un cognome capace di stroncare sul nascere la carriera di un Vate. Se non che il padre, adottato dall'Antonio zio per parte di madre, con le ricchezze ne ereditò anche il cognome: D'Annunzio. Il quale avrebbe dovuto, tuttavia, appaiarsi con Rapagnetta, trasformando il cognome in Rapagnetta-D'Annunzio; ma non si conosce un solo documento, né d'ufficio, né privato, in cui Francesco Paolo d'Annunzio figuri solo Rapagnetta. E unicamente il cognome d'Annunzio compare sul certificato di nascita di Gabriele.
Franco Di Tizio — medico e studioso abruzzese fra i più interessanti e feraci, direttore della collana Saggi e carteggi dannunziani, edita a Pescara da Ianieri — nel suo ultimo impegnativo lavoro va ben oltre la ghiotta aneddotica. Nel volume Gabriele d'Annunzio e la famiglia d'origine, ricostruisce, infatti, in oltre 500 pagine, l'intera cerchia parentale del grande poeta e scrittore del quale si concluderanno il primo marzo le celebrazioni a 150 anni dalla nascita. Nel libro c'è, per iniziare, l'inventario delle lettere e dei telegrammi — molte centinaia, numerosi gli inediti — che il poeta scambiò tra i componenti della stretta cerchia familiare.
I sette capitoli sono suddivisi tematicamente: l'infanzia, il padre, la madre, le tre sorelle — Anna (di cui a Parigi il poeta presentì la morte avvenuta a Pescara nell'agosto 1914), Elvira, Ernestina — e il fratello Antonio, forse il meno amato; difficoltà ebbe anche con la sorella Elvira; dovette, inoltre, far fronte, in diversi modi, alle costanti richieste d'aiuto di tutti i congiunti più stretti e anche di altri.
IL FRATELLO Antonio emigrò in America a 33 anni per sfuggire al carcere a causa di cambiali firmate con il nome di Gabriele, sopravvivendo dando lezioni di musica e suonando l'oboe. Tornò in Italia nei primi mesi del 1934, gravemente ammalato e in disastrosa situazione economica, cercando la protezione del fratello, che lo aveva soccorso già ben nove volte. Ma non gli vennero aperti i cancelli del Vittoriale. Si accommiatò con queste righe: «Partirò col Rex col tuo nome nel mio cuore e con l'animo straziato per non averti potuto rivedere per l'ultima volta».
Lacerante anche l'ultima lettera al celebre cognato di Adele, moglie di Antonio: «Tu non mi crederesti ma non riusciresti neppure lontanamente a fartene un'idea con tutta la tua potenza divinatrice» dei sacrifici, delle rinunce, del doppio lavoro «anche per tener alto il prestigio del nostro nome. Sembrerebbe come se la signora fortuna, per gioco, largendo a te ogni soddisfazione e conforto detraesse, per equilibrio, a tuo fratello anche la più legittima necessità».
È impossibile offrire, nell'ambito di una succinta nota, un'idea compiuta dell'accurata ed esaustiva ricostruzione di Franco Di Tizio dei molteplici legami domestici di Gabriele d'Annunzio, tutte storie che meriterebbero d'essere raccontate, alcune veri e propri romanzi. Ecco, quindi, solo alcuni accenni.
I GENITORI. La madre, Luisa de Benedictis, donna riservata, di famiglia benestante e di tradizioni signorili, alla quale Gabriele fu assai legato, andò in sposa a don Francesco Paolo D'Annunzio il 3 maggio 1858 a Ortona; lei aveva 25 anni, lui 26.
La casa dei giovani e abbienti coniugi fu allietata dalla nascita di cinque eredi: Anna (1859), Elvira (1861); Gabriele (1863), Ernestina (1865) e Antonio (1867).
Il poeta trasse i segni del destino già dai casati della madre, de Benedictis, dal proprio nome e dal cognome del padre: «Se io porto il nome dell'Arcangelo, ho nella mia mente il suggello sovrano dell'Arcangelo. Platone direbbe di me che sono una natura regale». Gli piacque ritenere che la madre fosse imparentata con Jacopo de Benedictis (o de' Benedetti), il grande poeta francescano Jacopone da Todi; e tra i suoi avi ricordò anche un antico tipografo: «Ho ritrovato un documento che dimostra come mia madre discenda da uno dei più insigni stampatori del primo rinascimento: Plato de Benedictis».
Curioso, per molte ragioni, l'episodio riportato da Franco Di Tizio, riguardante il padre, testimoniato dalla sorella Elvira nel 1923: «Gabriele aveva solo tre anni e una notte che dormiva nel letto di mia madre d'un tratto si svegliò, pretendendo che mia madre accendesse una candela. “Perché figlio mio vuoi che accenda, se stavamo dormendo?”, domandò mia madre. “Perché ho sognato – rispose testardo Gabriele – che piangevi in silenzio e perciò io devo assolutamente asciugarti le lacrime!” La candela fu accesa. Il bambino aveva indovinato». La madre aveva litigato, infatti, con il marito, impenitente e sfrontato dongiovanni che per le donne sperperò larga parte del patrimonio regalando anche case e terreni alle amanti che gli diedero figli di cui non fece mistero.
Ecco delineati due caratteri del poeta: il suo dichiararsi «sensitivo», come ribadirà ripetutamente durante la vita, e la natura del padre, al quale assomigliò per via di femmine e di sperperi.
È stato ribadito dai biografi «che Gabriele ereditò dalla madre la fine sensibilità mentre dal padre il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la disinvoltura nel contrarre debiti. Si racconta che il padre gioisse immensamente nel rimirarlo da bambino. Non perseguiva in sé i propri pensieri, ma quelli di lui. Spesso lo stringeva tra le sue ginocchia tenendolo per le braccia, fermamente, come un artista usa osservare la sua opera».
Gabriele da piccolo non seppe rinunciare né a voler male a questo padre. Gli sarà violentemente ostile solo da uomo maturo, soprattutto per difendere la madre.
Ben diverso fu il legame con la madre. Su un tavolino della Stanza del Lebbroso, una delle più misteriose, e per lui più sacre nella Prioria del Vittoriale, pose la fotografia della genitrice sulla quale scrisse di proprio pugno i versi del Poema paradisiaco: «Non pianger più. Torna il diletto figlio alla tua casa». Ma fu solo un desiderio.