Umberto Boccioni: la vita e le opere
“Vorrei cancellare tutti i valori che conoscevo che conosco e che sto perdendo di vista, per rifare, ricostruire su nuove basi! Tutto il passato, meravigliosamente grande, m’opprime io voglio del nuovo! E mi mancano gli elementi per concepire a che punto si è, e di cosa si ha bisogno. Con che cosa far questo? col colore? o col disegno? con la pittura? con tendenze veriste che non mi soddisfano più, con tendenze simboliste che mi piacciono in pochi e che non ho mai tentato? Con un idealismo che non so concretare?”. Quando Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 - Verona, 1916) scriveva queste righe, il 14 marzo del 1907, l’artista, tra i massimi esponenti del futurismo, stava attraversando uno dei diversi momenti di crisi della sua breve carriera, durata appena nove anni, ma tra le più importanti dell’intera storia dell’arte. Boccioni a quel tempo aveva solamente venticinque anni e rivelava già la propria indole: quella di un artista costantemente insoddisfatto, ma anche di natura profondamente “ribelle”, si potrebbe dire, che alimentò la sua propensione alla continua sperimentazione, la sua apertura al nuovo, la sua volontà d’indagare alcuni dei secolari problemi della storia dell’arte.
La parabola di Umberto Boccioni s’inserisce appieno in quella del futurismo, movimento che si poneva in contrasto con la cultura tradizionale, rifiutando il “passatismo” e l’accademismo, proponendosi l’intento di eliminare tutti i valori della cultura precedente per far sorgere un’arte completamente nuova in grado di obliterare tutte le forme espressive vecchie, percepite come stantie e superate: un’arte che, in sostanza, celebrasse la modernità, la velocità, il dinamismo della vita delle città, lo sviluppo tecnologico. Intenti che i futuristi espressero anche attraverso i vari manifesti: era il 5 febbraio del 1909 quando Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 - Bellagio, 1944) pubblicava, sulla Gazzetta dell’Emilia, il Manifesto del Futurismo (risale invece al 20 febbraio la pubblicazione su Le Figaro: è quest’ultima la data che è più spesso ricordata sui manuali di storia dell’arte in quanto all’epoca il centro dell’arte era Parigi e la pubblicazione del manifesto sul quotidiano francese ebbe naturalmente una risonanza molto più vasta). Celebre è la frase in cui Marinetti afferma: “Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”, spesso citata per dare il senso dei propositi dei futuristi.
All’interno del movimento furono diversi gli orientamenti stilistici, naturalmente. Se dunque Giacomo Balla fu molto suggestionato dagli esperimenti fotografici di Anton Giulio Bragaglia, se Gino Severini, da toscano, fornì l’interpretazione più delicata e leggera del futurismo, se invece Fortunato Depero fu il futurista più giocoso, Umberto Boccioni fu del movimento il più drammatico, il più tormentato, uno dei più radicali e incendiari, e fu il futurista che, nell’ambito della scultura, raggiunse gli esiti più moderni e innovativi, tanto che lo si potrebbe considerare come l’artista che ha aperto il Novecento grazie soprattutto a uno dei suoi massimi capolavori, Forme uniche della continuità nello spazio. I risultati più originali saranno quelli che Boccioni raggiungerà solo negli ultimi sei anni della sua carriera: sei anni che però hanno probabilmente cambiato il corso della storia dell’arte.
Umberto Boccioni nasce il 1882 a Reggio Calabria da Raffaele, impiegato di prefettura originario di Morciano di Romagna che si trova in Calabria per motivi di lavoro, e Cecilia Forlani. Nei primi anni della sua vita l’artista si sposta in diverse città d’Italia (Genova, Padova, Catania) seguendo il lavoro del padre, e si diploma all’Istituto Tecnico di Catania del 1897. Boccioni inizialmente nutre aspirazioni letterarie, tanto da scrivere un romanzo, Pene dell’anima (del 1900), rimasto però inedito. Nel 1901 si trasferisce a Roma e qui comincia una timida attività artistica come cartellonista. Parallelamente comincia a dipingere dopo aver conosciuto Gino Severini: i due frequentano l’atelier del più anziano Giacomo Balla e decidono poi di iscriversi alla scuola libera del nudo all’Accademia di Belle Arti di Roma. Dopo aver esposto a una collettiva al Teatro Nazionale di Roma nel 1905, riesce a farsi pagare dai genitori un viaggio a Parigi nel 1906: al ritorno, decide di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, ma l’abbandona per trasferirsi nel 1907 a Milano, dove frequenta Romolo Romani e Gaetano Previati, e dove incontra Marinetti e altri artisti futuristi.
Anno chiave per la biografia di Boccioni è il 1910, quando, oltre a dipingere alcuni dei suoi capolavori come La città che sale o Rissa in galleria, sottoscrive con Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini il Manifesto tecnico dei pittori futuristi, che Boccioni stesso legge l’8 maggio di quell’anno al Politeama Chiarella di Torino. Comincia a dipingere le sue prime opere importanti e sempre nel 1910 le espone dapprima negli spazi della Famiglia Artistica a Milano, quindi a Venezia, a Ca’ Pesaro, in una mostra allestita da Nino Barbantini, che gli organizza una rassegna di ben 43 opere. Nel 1911 e poi ancora nel 1912 è di nuovo a Parigi dove espone le sue opere, e sempre nel 1912 pubblica il Manifesto tecnico della scultura futurista, esponendo al Salon d’Automne. Divenuto nel frattempo collaboratore della rivista La Voce, diventa anche anima delle celeberrime serate futuriste, che spesso finiscono in rissa a causa delle provocazioni e della passione incendiaria dei futuristi.
Nel 1914, sull’orlo della prima guerra mondiale, Boccioni è fervente interventista e partecipa anche ad alcune manifestazioni (venendo addirittura arrestato a Bologna in autunno). Ancora nel 1914 firma, assieme a Carrà, Boccioni, Marinetti, Russolo e Ugo Piatti firma il manifesto Sintesi futurista della guerra, mentre è del 1915 il manifesto Orgoglio italiano, firmato assieme agli stessi artisti, a Mario Sironi e ad Antonio Sant’Elia. In maggio, Boccioni si arruola volontario e a novembre, terminata la sua esperienza sul fronte, torna a Milano dove riprende le sue attività (oltre a dipingere e a scolpire, Boccioni scrive molto su diverse riviste). Torna in guerra nel luglio del 1916 e viene assegnato al reggimento artiglieri di Verona: muore il 17 agosto del 1916 all’ospedale militare di Verona, a seguito di una caduta dalla sua cavalla nella quale era rimasto gravemente ferito. Viene sepolto nel cimitero monumentale di Verona.
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Le opere di Umberto Boccioni e la sua poetica
L’arte del Boccione degli esordi è, dal 1907 al 1910, ancora molto legata al divisionismo nell’ambito del quale l’artista asi formò, seguendo Giacomo Balla (si veda per esempio La madre, pastello conservato alla Galeria d’Arte Moderna di Milano). Alle esperienze più accostabili al divisionismo, Boccioni, preso dalle sue costanti ricerche, affiancava anche una meno nota produzione di tipo espressionista, debitrice nei confronti delle ricerche di Munch. La prospettiva però cambia completamente nel 1910, quando l’artista firma assieme ai suoi colleghi il Manifesto tecnico dei pittori futuristi, dove si legge, tra gli altri propositi: “Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza della immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti, e i loro movimenti sono triangolari. Tutto in arte è convenzione, e le verità di ieri sono oggi, per noi, pure menzogne. Affermiamo ancora una volta che il ritratto, per essere un’opera d’arte, non può nè deve assomigliare al suo modello, e il pittore ha in sè i paesaggi che vuol produrre. Per dipingere una figura non bisogna farla; bisogna farne un’atmosfera”.
Il capolavoro che meglio rappresenta questa fase è La città che sale: su di un substrato ancora fondamentalmente simbolista, Boccioni innesta un turbinio cromatico violento, dipinto con pennellate frammentate che imprimono un forte senso di movimento alla scena. La città che sale è anche uno dei primi capolavori futuristi, oltre che il primo dipinto compiutamente futurista di Boccioni, il primo che introduce una visione molto più dinamica del soggetto (che in questo caso, come spesso accade nella pittura di Boccioni, altro non è che la veduta di una città). Boccioni era arrivato a questa tensione dopo essersi avvicinato molto con opere dello stesso periodo: Rissa in galleria, per esempio, è del 1910, è ancora un’opera profondamente legata al divisionismo, ma è già introdotta una componente di movimento che costituisce la base per i capolavori della fase successiva.
Con gli Stati d’animo del 1911 la pittura di Boccioni si è già radicalmente rinnovata e giunge a una modalità espressiva in cui colori, contrasti di toni, forme, spazio, deformazioni di stampo espressionista e movimento si uniscono per dare luogo a composizioni vorticose, dove lo spazio è dilatato e dove le linee concorrono a suggerire la tensione della scena (ne Gli addii, una delle tele che compongono la prima serie degli Stati d’animo, la sensazione che l’artista comunica è quella di un treno in corsa, con la locomotiva che compare dietro un caos di linee e forme che suggerisce non solo il movimento del mezzo ma anche la confusione della stazione). Il tema del movimento viene poi ulteriormente sviluppato in un’opera come Dinamismo di un ciclista e Dinamismo di un footballer, che vanno alla ricerca della “manifestazione dinamica della forma”, per usare un’espressione dell’artista.
Si è detto che uno dei principali soggetti della ricerca di Boccioni è quello della madre, molto presente nelle opere degli inizi, ma presente anche quando le ricerche futuriste sono in pieno fermento: lo si vede per esempio in Materia, famoso ritratto “futurista” della madre di Boccioni. Ritratto staordinariamente moderno che trova nelle riflessioni di Paul Cézanne il punto di partenza per la semplificazione dello spazio e si nutre di suggestioni picassiane, Materia è opera che, ha scritto Marisa Dalai Emiliani, “si accampa perentoriamente al di qua e al di là della tela, al di qua e al di là del doppio diaframma trasparente di una finestra smaterializzata (ma ineludibile memento della metafora albertiana della Pittura) e nell’arabesco traforato della ringhiera, che le linee-forza dei suoi volumi attraversano e dai cui piano sono compenetrate”. Quello delle linee-forza è uno dei concetti chiave dell’estetica boccioniana: sono il mezzo con cui Boccioni scomponeva le sue figure costruendo le sue forme in movimento, per arrivare alla “rappresentazione dei moti della materia nella traiettoria che ci viene dettata dalla linea di costruzione dell’oggetto e dalla sua azione”. “Quello che noi vogliamo rappresentare”, ebbe a scrivere, “è l’oggetto nel suo vissuto dinamico e dare la sintesi delle trasformazioni che l’oggetto subisce nei suoi due moti relativo ed assoluto. Noi vogliamo dare lo stile del movimento. Noi non vogliamo trasportare in immagine noi ci identifichiamo con la cosa. Quindi per noi l’oggetto non ha una forma a priori. Ma è definibile la sola linea del suo peso ed espansione. Questo ci suggerisce le linee forza che caratterizzano l’oggetto e ci portano a capire l’essenza principale dell’oggetto ciò l’intuizione della vita”. L’artista adopera le linee-forza anche in quello che forse è il suo principale capolavoro, Forme uniche della continuità nello spazio, l’opera con qui l’artista “conquista” lo spazio aprendo alla quarta dimensione che sarà poi definitivamente conquistata da Lucio Fontana, il quale vedrà in Boccioni una sorta di padre ideale.